Le prigioni di Alexei Navalny

Micol Flammini

Le torture dell'oppositore raccontate da due ex detenuti e un cadavere sospetto a Berlino

Roma. Quando Alexei Navalny fu condannato a trascorrere più di due anni in una colonia penale, l’intenzione delle istituzioni era quella di condurlo il più lontano possibile dall’attenzione dei russi. Oscurarlo, nasconderlo, fare in modo che la Russia e i sostenitori di Navalny lo dimenticassero in fretta, prima che la sua fama e le sue istanze diventassero un fenomeno troppo grande per essere contenuto. Navalny è stato mandato nella colonia penale di Pokrov, regione di Vladimir, conosciuta per le condizioni particolarmente dure di detenzione. La strategia non è stata fallimentare, alle elezioni della Duma che si sono tenute a settembre non c’era traccia dei navalniani, il partito del presidente russo Vladimir Putin, Russia unita, ha vinto e la nazione si sta trasformando in un sistema sempre più chiuso in cui il dissenso non è tollerato. Incarcerare Navalny però non è bastato al Cremlino, perché da alcune notizie raccontate all’emittente Dozhd da due compagni di carcere dell’oppositore, la vita nella colonia penale per lui è un tormento. L’oppositore aveva già riferito di essere privato del sonno e i due uomini lo hanno confermato. Hanno raccontato che quando Navalny faceva lo sciopero della fame, era aprile, per ottenere delle adeguate cure mediche, le vessazioni erano anche aumentate. L’oppositore diceva di stare molto male e non soltanto non gli veniva data la possibilità di essere visto da un medico che non fosse delle prigione, ma comunque veniva svegliato continuamente durante la notte e i fornelli erano stati spostati a due passi da lui, in modo che sentisse l’odore della cucina. In quei giorni, hanno raccontato i due uomini, la qualità del cibo per i carcerati era anche aumentata. 

Non sono soltanto le guardie carcerarie a occuparsi di Navalny, anche gli altri reclusi sono incitati a farlo. A Dozhd i due uomini hanno raccontato che i detenuti sono stati istruiti a non parlare con l’oppositore, per disincentivare i contatti hanno anche proiettato un video su di lui, pieno di notizie false come quella sulla sua omosessualità. Ad alcuni detenuti viene assegnato il compito di infastidirlo o di insultarlo. Ma finora Navalny non ha mai risposto, non s’è mai fatto vedere violento, nonostante le provocazioni, che dal racconto dei due uomini sembrano essere tante e incessanti. Alcuni giornalisti russi stanno ancora lavorando per capire quanto questo racconto abbia fondamento, cosa ci sia di vero, ma che nelle prigioni in Russia le condizioni di detenzione sono disumane era già emerso in un’inchiesta pubblicata da Gulag.net, un’organizzazione umanitaria. L’inchiesta mostrava documenti che raccontavano di torture e di stupri, di condizioni delle celle pessime. Navalny ha senza dubbio dalla sua parte una risonanza mediatica che altri detenuti non hanno, e in parte la sua esposizione è forse anche la più grande garanzia di protezione. Ma al Cremlino  comunque  non è bastato incarcerarlo e nasconderlo, dai racconti dei due uomini sembra esserci la volontà di annullarlo: è una condizione che va oltre la condanna ingiusta, è sadismo al potere. 

 

Mentre il caso di Alexei Navalny – o meglio il fallimento del suo avvelenamento – continua a tormentare i servizi di sicurezza russi, la colonia penale di Pokrov  continua a tormentare lo stesso Navalny. Il sito di inchiesta Bellingcat ha pubblicato assieme allo Spiegel un’inchiesta su una morte molto misteriosa avvenuta all’ambasciata russa di Berlino, dove un uomo sarebbe caduto dalla finestra. E’ successo nel mese di ottobre, l’ambasciata disse che si era trattato di un brutto episodio, ma non è stato ancora stabilito se l’uomo sia morto per la caduta o in altre circostanze. Quello che ha fatto destare qualche sospetto è la sua identità: l’uomo sarebbe il figlio del direttore dell’unità dell’Fsb incaricata di seguire e avvelenare Navalny. La vita dell’attivista, o meglio, la sua sopravvivenza sono diventate un’ossessione per il Cremlino. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.