Il premier inglese Boris Johnson (LaPresse) 

Tra cori e antropologia

Un calcio da Brexit

Edward Vulliamy

Da decenni negli stadi e dintorni ci sono i segnali di come l’arrogante euroscetticismo inglese si sarebbe compiuto. Un viaggio appassionato, con due articoli cestinati e l’aria da Cassandra 
 

Nell’estate del 2008 scrissi un commento per il mio giornale – l’Observer, l’edizione domenicale del Guardian – prima dell’Europeo di calcio disputatosi quell’anno, ospitato dall’Austria e dalla Svizzera. L’Inghilterra non era riuscita a qualificarsi, e il mio articolo sosteneva due cose. La prima: così sarà l’Europa quando il Regno Unito lascerà l’Unione europea, e di conseguenza, la seconda: l’Europa se la passerà meglio, così come quest’edizione del torneo sarà molto più gradevole senza la presenza dei tifosi inglesi, che si distinguono per la loro bestialità. I miei capi mi credevano pazzo per avere formulato la prima tesi: di cosa diamine sta parlando il nostro giornalista-Cassandra? E, con tutto il loro liberalismo, mi ritenevano anti patriottico per la seconda: a differenza mia, la maggior parte dei miei colleghi tifava e continua a tifare per l’Inghilterra. Il mio articolo fu cestinato.

 

Molto è stato scritto del valore simbolico e politico degli Europei di quest’anno, e di come il glorioso cosmopolitismo dei calciatori in campo sia lo specchio del mondo moderno. La superba nazionale svizzera che ha battuto i favoriti, la Francia, potrebbe essere comodamente chiamata “Rifugiati FC”, per il gran numero di giocatori che hanno raggiunto il gotha del calcio pur essendo cresciuti lontano da casa per via delle guerre nella ex Jugoslavia. Due di loro, Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, vengono entrambi dal Kosovo, giocano da fratelli nella nazionale svizzera e da nemici per i rispettivi club, l’Arsenal e il Liverpool. Tre svizzeri-bosniaci della rosa giocano in Germania.

 

Ma io sono interessato agli inglesi, e all’antropologia calcistica della Brexit, di Boris Johnson e di tanti altri fenomeni politici. Devo fare una premessa: nonostante sia nato a Londra (con due nonne irlandesi), sono sempre stato azzurro e bianconero. La mia juventinità è stata accumulata a piccole dosi: all’età di sei anni, nel 1960, ho scoperto che un giocatore – John Charles – potesse provenire da una valle vicina a quella dove era nato mio padre in Galles e poi fuggire per giocare in un pianeta esotico e distante. Mi sono impegnato a seguire, almeno geograficamente, le orme di Charles e più ho imparato ad amare e capire l’Italia più la Juventus ha iniziato a simboleggiare tutto il paese.
A differenza di molti juventini, provo simpatia per molti dei nostri rivali. Ammiro il Napoli e la Roma perché amo le due città e dopo l’Anno Zero del Covid, provo lo stesso anche per la meravigliosa Atalanta. Li amo tutti perché questo è un modo per amare l’Italia. Compro e compilo meticolosamente l’annuario “Voglia di Calcio” ogni anno – sono quasi patetico. Soprattutto tifo, e ho sempre tifato, per la Nazionale italiana.

 

Da bambini, i miei compagni di classe scelsero il Chelsea, l’Arsenal, il Liverpool o il Manchester United, ma io iniziai a tifare una squadra piccola e umile di Londra ovest, il Queens Park Rangers, per poterla seguire allo stadio, dove indossavo orgogliosamente la maglia numero 6 di Scirea. Mentre i miei amici sostenevano la Nazionale inglese, io ho festeggiato la vittoria del 1982 vestito di azzurro e indossando la maglia numero 20 di Paolo Rossi. Tutto questo era un modo per essere europeo: ho acquistato le mie prime automobili – Citroën 2CV e Renault 5 – in Belgio per avere la guida dalla “parte sbagliata” in patria. Indossavo le scarpe Kickers anche se non mi piacevano, perché davano l’idea di essere “continentali”.

 

Poi è arrivato l’Heysel. Ho assistito da una posizione privilegiata al massacro di trentanove tifosi juventini – la maggior parte dei quali non erano ultras, ma gruppi di famiglie venute dal sud con un viaggio organizzato – per mano dei tifosi del Liverpool. Il mio posto in tribuna era adiacente alla fatale tribuna Z, che è stata caricata tre volte dai teppisti del Liverpool, e l’ultima di queste ha portato al massacro ed è dunque stata omicida. Qualcosa ha avuto inizio all’Heysel, o meglio, qualcosa stava succedendo in Gran Bretagna ma ha trovato la sua espressione quel 29 maggio 1985. La realtà è diventata calcio, e il calcio è diventato realtà. Quell’estate mi sono iscritto allo Juventus Club di Londra e sono andato in macchina a Torino per unirmi allo Juve Club Primo Amore. Era il mio modo di dire, come si usa fare adesso: “Not in my name”. Qualunque cosa rappresenti l’Heysel, pensavo, è il sintomo di qualcosa di molto più profondo, molto più ampio che, esistenzialmente, non ha nulla a che fare con me.

 

Sono state scritte migliaia di parole sul massacro dell’Heysel; e io ho dato il mio contributo, soprattutto quando sono andato alla ricerca delle famiglie delle vittime, specialmente in Puglia. Ho scritto ancora di più in seguito all’orgia di teppismo dei tifosi inglesi in Germania durante gli Europei del 1988, quando vomitarono e urinarono sui sanpietrini delle città ospitanti, accoltellarono gli immigrati a Stoccarda, fecero il saluto nazista a Francoforte, vantandosi al contempo anche di avere vinto la Seconda guerra mondiale (decidetevi). La reazione all’Heysel in Inghilterra è stata incredibile (all’epoca, non adesso), anche tra gli intellettuali e i tifosi del Liverpool cosiddetti cosmopoliti.

 

Mi sarei aspettato una delegazione a Torino in segno di penitenza, un’amichevole o un fondo per le famiglie dei deceduti. Ma no. Eccetto il divieto ufficiale di giocare in Europa per le squadre inglesi, siamo stati inondati da quelle che ora verrebbero chiamate fake news: la struttura non era adatta, era colpa della politica di vendita dei biglietti o della polizia che non è riuscita a evitare il massacro. Era una vendetta contro gli “Ities” per ciò che i tifosi della Roma avevano fatto un anno prima. I principali quotidiani si presero gioco delle condizioni delle stazioni di polizia belghe dove una manciata di assassini era in attesa del processo. Tre anni dopo i tifosi del Liverpool sono stati vittime di una tragedia simile a Hillsborough, causata in gran parte dalla South Yorkshire Police, ma nessuno l’ha collegata al fatto che la curva “Kop” del Liverpool avesse compiuto un gesto simile quattro anni prima. Ma loro erano italiani, quindi chissenefrega.

 

E quindi? È successo molto, io credo. La storia della Brexit è vecchia come la terribile narrazione dell’Impero, della hubris inglese e dell’aggressiva miopia isolana degli ultimi secoli. Ma in termini di cultura popolare, e attitudine verso l’Europa, credo che la Brexit abbia avuto inizio all’Heysel, con l’odio letale dei tifosi del Liverpool nei confronti degli “stranieri” che si aggiravano intorno alla stadio.

 

Questa non è la sede in cui scrivere una storia sociale della Gran Bretagna contemporanea. Basta dire che nel 2011, mentre Londra si preparava a ospitare le Olimpiadi, ho scritto un articolo più lungo intitolato “Broken Britain”, sulla degenerazione morale ed esistenziale del paese, un mix tossico di arroganza, inettitudine e bellicosità contro lo “xenos”, qualunque esso sia. Parlavo di una pericolosa alleanza nazionalista tra tre strati della società britannica: la working class indigena, la “piccola borghesia” e l’upper class con il “sangue blu”. Ancora una volta, i miei capi hanno rifiutato il mio saggio, considerandolo sleale e catastrofista; è finito a New York, sulla copertina dell’Harper’s magazine.

 

Non sono uno scommettitore abituale, ma le venti sterline che ho puntato sull’Italia (quotata a sette prima dell’inizio del torneo) sono la quinta scommessa di fila che va a buon fine. Nel 2014, quando l’Ukip di Nigel Farage vinse le elezioni europee scommisi una cassa di whiskey irlandese con il commentatore politico dell’Observer Andrew Rawnsley sul fatto che avremmo lasciato l’Unione europea (dopo il risultato, lui ha insistito che si trattasse solo di una bottiglia, e non ha ancora pagato, forse aggrappandosi alla speranza del secondo referendum che non c’è mai stato).

 

Nel 2016, ho scommesso venti sterline sulla Brexit e altre venti su Donald Trump, entrambe pagavano tre volte la posta iniziale. Poi nel 2019, malgrado l’indignazione dei miei colleghi, ho puntato quindici sterline sul fatto che Boris Johnson avrebbe conquistato una maggioranza di oltre ottanta deputati, un’eventualità quotata a 15 che mi ha fatto vincere 225 sterline. La mia puntata sugli Azzurri è l’unica che ho festeggiato.

 

Non ritengo di avere avuto una  apparizione divina, ho solamente interpretato i segni e fiutato da che parte andasse il vento. Dato che ho lavorato come giornalista in Italia, nei Balcani, negli Stati Uniti e in America latina, riuscivo forse a vedere i cambiamenti nel Regno Unito in modo più nitido ogni qualvolta ritornavo, rispetto agli amici e colleghi che erano invece rimasti. A differenza di molti colleghi, viaggiavo di frequente fuori da Londra. La Gran Bretagna aveva perso – anzi, ripudiato – qualcosa che il mondo giustamente amava in quella finestra temporale dagli anni Sessanta agli anni Settanta nella quale ci siamo aperti ai blues americani, abbiamo creato i Beatles, i Rolling Stones, i Pink Floyd e i Clash; nel 1975 abbiamo votato (la mia prima volta a un seggio) per entrare in ciò che sarebbe diventata l’Unione europea.

 

Dopo di che, siamo passati dall’essere un paese che produceva film effervescenti come “My Beautiful Launderette”, “Letter to Brezhnev”, “The Wind That Shakes The Barley” e “Trainspotting”, alla nostalgia bulimica del “Discorso del Re”, due film che glorificano Churchill, “Dunkirk”, “Journey’s End”, “1917”, eccetera. Siamo passati da una squadra di calcio che ha vinto il Mondiale a una che o fallisce completamente o si arrende all’ultimo miglio, come è successo stavolta. Cosa è successo? Margaret Thatcher ha preso a borsettate l’allora Comunità europea e ha aizzato la nazione e i media a sostenere la sua guerra ridicola nelle isole Malvinas/Falklands. Tony Blair si è probabilmente rivolto a qualcosa di più intelligente, ma anche lui ha dimostrato la sua particolare versione dell’hubris, e la separazione dall’Europa, mentendo e poi prendendo parte al massacro in Iraq.

 

Quella tripla alleanza si è irrigidita: in basso, ci sono delle persone terribilmente impoverite, il cui attaccamento primario è all’impero, alla bandiera e alla corona, di cui sono “sudditi” e non cittadini. Questi eleggono dei primi ministri come Winston Churchill, Harold Macmillan, ora David Cameron e Boris Johnson provenienti da Eton, Harrow e altre scuole d’élite – li chiamiamo “toffs”, e sono amati dal popolo. Questa sottoclasse ha un suo giornale preferito, Il Sun, il più venduto in Europa, che getta una dose quotidiana di donne nude e volgarità razziste in pasto alle masse. Il Sun non ha mai perso un’elezione; quando ha appoggiato il Labour di Tony Blair, il Labour ha vinto. Poi c’è la piccola borghesia di provincia, che detesta gli immigrati pur non avendone mai visto uno, e ha il suo organo, il malefico Daily Mail, che esprime un patriottismo fintamente intelligente e fanatico. Poi c’è il sangue blu, gli aristocratici e chi si finge tale, quelli delle contee, con il loro Daily Telegraph, “la bigotteria dell’uomo pensante”. La genealogia di quest’alleanza riflette quella che diventò la colonna portante del Terzo Reich: il volk, il mittelstandt e gli Junkers. Anche la Londra cosmopolita ha eletto Boris Johnson come sindaco ben due volte.

 

Queste forze sono state ormai scatenate, unite dal loro odio verso i “cosmpoliti” e il “cosmopolitismo”, le stesse parole usate sia da Stalin sia da Hitler per deridere gli ebrei – oggi viene descritto così chiunque ha delle aspirazioni che vanno oltre le bianche scogliere di Dover, o una curiosità di imparare le lingue straniere o di comprendere le culture altrui. Le vite di chi ha votato per la Brexit non sono cambiate in alcun modo – a parte il fatto che votando così molti hanno perso il proprio posto di lavoro – ma le nostre sono state rovinate. Keats, Byron e Shelley avevano il diritto di dimora in Italia 150 anni fa. Io no.

 

Nella loro miserabile corsa per conquistare il voto della classe operaia, sia la sinistra stalinista dura e pura del Labour (sotto Jeremy Corbyn) sia il centro socialdemocratico (sotto Sir Keir Starmer) hanno corteggiato e si sono inchinati alla Brexit. Il punto più basso è arrivato quando un uomo che gridava lo slogan “Britain First” ha ucciso a coltellate la deputata laburista e pro Remain Jo Cox, durante la campagna per il referendum. Una vignetta su Charlie Hebdo ha raffigurato uno skinhead che prende a calci la sua bara oltre la manica verso Calais con la seguente didascalia: “Jo Cox est mort pour rien” (“Jo Cox è morta per niente”). Ed era vero; di recente la sorella di Cox ha vinto per un soffio in quello che sarebbe dovuto essere un trionfo alimentato dall’indignazione e dalla compassione.

 

Il calcio fa parte – e riflette – tutto questo, e la sua follia. Il fatto che i tifosi brexitari e tracannatori di birra esultino per delle squadre piene di giocatori europei e allenate da Jürgen Klopp, José Mourinho e Pep Guardiola rende bene l’idea di quanto sia farsesca la Brexit. Se c’è qualcosa di nuovo nell’idiozia contemporanea è che oggi la gente è fiera della propria stupidità mentre in passato faceva finta – o credeva – di non esserlo. Ho visto i tifosi inglesi distruggere uno stadio a Dublino gridando “non ci arrenderemo all’Ira” nel 1995, proprio mentre si stava negoziando un accordo di pace. Questo sarebbe semplicemente patetico se non fosse così tossico. L’aspetto più atroce del progetto di Johnson è il suo senso di superiorità nei confronti dell’Irlanda, del suo successo come stato membro dell’Ue e il suo disprezzo per il trattato firmato tre anni dopo quegli scontri, nel 1998. Johnson, l’allievo di Eton, che si comporta come gli skinheads che votano per lui.

 

Questa arroganza riflette il fatto che, anziché fare i conti con la storia dell’impero, e specialmente con l’ex colonia irlandese, lo Zeitgeist presente e futuro della Brexit non è nient’altro che una perversa resurrezione neo coloniale dell’impero, che però assume un retrogusto malinconico, vuoto e in ritardo. La diversità etnica del governo Johnson è affascinante e, a differenza della Nazionale di calcio inglese, di stampo interamente neo coloniale. Tutti i tifosi amano cantare il loro inno nazionale ma solo i tifosi inglesi intonano dei lamenti funebri incessantemente durante la partita: “Long to Reign Oooover us! God save our Queen...”. Povero Platone, povero Voltaire, povero Mazzini – tutto quel lavoro per nulla, almeno da queste parti.

 

“Football’s coming home”, cantavano, ma non è andata così e non succede dal 1966, quando la swinging London era la capitale d’Europa e l’Inghilterra vinceva il Mondiale. L’11 luglio il calcio è andato a casa a Roma. Sì, certo, voi italiani avete i vostri problemi e i sondaggi più recenti danno segni scarsi di una moderazione politica. Ma voi siete una Repubblica, per ora siete ancora nell’Ue e dentro Schengen; potete vivere e lavorare in 27 paesi europei e i vostri figli possono studiare con il programma Erasmus da cui le mie figlie sono escluse. E poi: avete Donnarumma, Chiellini, Bonucci, Verratti, Jorginho e Chiesa! Avete vinto la finale a Wembley, una seconda conquista romana! Magari fosse così per noi. Questo è il problema quando si decide di ignorare Cassandra: aveva ragione, e Troia è caduta.

 

(Traduzione di Gregorio Sorgi)

 

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