State TV and Radio Company of Belarus via AP

Il regime di Minsk e la pratica staliniana di minacciare i parenti

Anna Zafesova

Dopo il clamoroso dirottamento aereo, oltre al dissidente viene fermata la fidanzata. Così lui "confessa": sembra una riedizione dei peggiori incubi del Novecento, eppure il regime di Lukashenka non ne fa nemmeno mistero

Non ho problemi di salute... Ricevo un trattamento corretto, nel rispetto della legge. Sto cooperando con l’indagine e confessando le mie azioni”. Roman Protasevich appare davanti alla telecamera della prigione dopo che sua madre aveva fatto sapere che era in ospedale, 24 ore dopo che il mondo l’ha visto l'ultima volta andarsene via tremante dalla pista dell’aeroporto di Minsk scortato dalla polizia. Ha il volto gonfio, tumefatto, e un’ammaccatura visibile sulla fronte. Sembra anche che abbia la pelle più scura, ma non si capisce se sono le tracce dell’abbronzatura presa in Grecia o di un cerone messo dai poliziotti per nascondere segni di percosse. Chi deve capire capisce. La giornalista russa Olga Bychkova, voce storica della radio Eco di Mosca, interrompe il dibattito su Twitter: “Roman è vivo. Tutto il resto di questo video non ha alcuna importanza”.

 

Tutto il mondo chiede la sua liberazione, e in attesa di imminenti sanzioni europee quasi tutte le grandi compagnie internazionali stanno già boicottando lo spazio aereo della Bielorussia dopo il clamoroso dirottamento ordinato da Aleksandr Lukashenka per catturare il fondatore del principale canale di opposizione Nexta. Vederlo “confessare” è ancora più agghiacciante che vederlo rapire nei cieli d’Europa, ma la confessione “è la regina delle prove” dai tempi del procuratore staliniano Vyshinsky, e la vecchia regola del “Grande fratello” intima di spezzare una persona con la sua paura più grande. Insieme a Roman è stata fermata la sua fidanzata, Sofia, cittadina russa: il motivo per cui Protasevich ha “confessato” è abbastanza evidente.

 

Se non fosse evidente, si può ascoltare la testimonianza di Arina Malinovskaya, conduttrice del canale indipendente Belsat, fuggita dalla Bielorussia dopo una trasmissione che aveva per protagonisti due ex poliziotti che denunciavano la repressione. I poliziotti sono stati fermati, i giornalisti e i tecnici di Belsat arrestati e condannati al carcere, e Arina ha ricevuto una telefonata dal cellulare di suo cognato: era un magistrato, che la invitava a tornare in patria, altrimenti sarebbe andato ad arrestare i suoi nonni. Il cognato in seguito è stato rilasciato, ma le retate contro i giornalisti continuano: dopo gli arresti dei giorni scorsi nella redazione del sito Tut.by mancano ancora all’appello una quindicina di collaboratori della testata, desaparecidos nelle segrete del regime. Dalle quali rischiano di non uscire vivi: ieri i parenti del dissidente Vitold Ashurok hanno ricevuto il suo corpo, bendato dalla testa ai piedi. “Ci è scappato mentre lo tiravamo fuori dal frigo”, avrebbe detto un addetto dell’obitorio al fratello, ma la prigione ha diffuso un video che mostra un detenuto (non si capisce se sia Ashurkov) cadere in cella per un malore, battendo la testa. I familiari hanno preferito procedere ai funerali, senza guardare sotto le bende.

 

Sembra una riedizione dei peggiori incubi del Novecento, il ricatto totalitario-mafioso con le vite dei cari, eppure il regime di Lukashenka non fa nemmeno mistero di usare questo strumento. Una spavalderia che fa quasi parte del personaggio, come di quello di Ramzan Kadyrov, il presidente ceceno che minaccia sui social blogger e politici, ottenendo spesso le loro terrorizzate scuse. L’importante non è salvare la faccia, ma ottenere il risultato, e così Lukashenka vuole dietro le sbarre come “rei confessi” anche gli oppositori che aveva incoraggiato a emigrare. Condanne a 6-7 anni di prigione sono all’ordine del giorno a Minsk, e chi sceglie la fuga e l’asilo in Europa sa di lasciarsi dietro potenziali ostaggi. La stessa minaccia viene praticata contro gli oppositori russi. Il padre del deputato moscovita Konstantin Yanskauskas ha subìto un ictus durante una perquisizione in casa, e il Covid contratto in ospedale ha accelerato la sua fine. Il padre di Ivan Zhdanov è stato arrestato e rischia dieci anni di carcere: “La cosa peggiore che potevano farmi”, ha commentato il direttore della Fondazione anticorruzione di Alexey Navalny. Che ieri si è visto notificare in un solo giorno altre tre incriminazioni che potrebbero costringerlo a restare in carcere per anni.

 

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