L'inizio della nuova Russia

Anna Zafesova

L’avvelenamento di Alexei Navalny è il momento esatto in cui scatta l’ora X della Mosca contemporanea. L’oppositore diventa il punto di riferimento di una generazione e l’avversario più celebre di Putin

Esce oggi “Navalny contro Putin” di Anna Zafesova, edito da Paesi edizioni. Il libro  ripercorre gli ultimi mesi della storia della Russia, in cui la battaglia per il futuro della nazione è diventata politica, esistenziale e personale e si anima dietro due schieramenti, due protagonisti, due idee di nazione.

Ne pubblichiamo un estratto.


 

L’ora X della Russia contemporanea scatta all’alba del 20 agosto 2020, quando Alexey Navalny perde conoscenza e cade sulla moquette del corridoio di un aereo low-cost nel cielo della Siberia. La notizia si diffonde subito in tutto il mondo, insieme a un video girato da un passeggero, dove si sentono urla strazianti. In seguito, Navalny racconterà di non ricordarsi cosa lo aveva fatto soffrire, di non rammentare nulla se non quel momento in cui “non ti fa male nulla, ma nello stesso tempo hai la nitida consapevolezza di stare morendo”.

 

A Mosca sono le 4.50, a Tomsk le 8.50. Il volo 2614 della compagnia S7 è decollato da Tomsk meno di un'ora prima, e la presenza a bordo di uno degli uomini più popolari della Russia non è passata inosservata: le numerose foto e i selfie che i passeggeri scattano con Navalny al bar dell’aeroporto e sul pulmino che li porta a imbarcarsi, aiutano a certificare che il politico sembrava in ottima forma. Anche il comandante Vladimir Kuzmin riconosce nel passeggero svenuto in corridoio il famoso oppositore e chiede un atterraggio d’emergenza: “La cosa più probabile è un avvelenamento”, dice, sapendo di stare salvando la vita a un uomo, ma ignorando di stare cambiando la storia.

 

 

La torre di controllo dirotta il volo a Omsk. Le hostess seguono angosciate l’addensarsi delle nuvole fuori dagli oblò, mentre insieme a un’infermiera trovata tra i passeggeri cercano di tenere in vita il paziente: “Alexey, bevi! Alexey, respira!”. Mentre inizia l’atterraggio, all’aeroporto di Omsk arriva una telefonata che annuncia una bomba nascosta nel terminal: falsi allarmi del genere erano già scattati nelle settimane successive e non è chiaro se sia soltanto una coincidenza o se qualcuno stia tentando di rallentare i soccorsi. Che arriveranno con una tempestività da telefilm americano: alle 6.01 ora di Mosca l’aereo tocca la pista, alle 6.03 a bordo sale un equipaggio di medici addestrati al soccorso sugli aeromobili, che chiamano un’autoambulanza con un’unità di rianimazione. Arriverà una decina di minuti dopo con un’iniezione di atropina come richiede il protocollo, e il verdetto dei medici sarà “avvelenamento di natura ignota”. La ruota della storia compie un altro giro imprevisto.

 

Alexey Navalny stava rientrando a Mosca da una tournée elettorale in Siberia, e aveva tutti i motivi non solo per sfoggiare un sorriso per i selfie con i suoi fan, ma anche per essere sinceramente contento. Era entrato in una nuova fase della sua carriera politica. Il viaggio a Tomsk e a Novosibirsk, due centri universitari siberiani dove il dissenso era sempre stato più radicato che altrove, aveva posto le basi di un nuovo attacco al Cremlino

 

 

Le imminenti elezioni locali avrebbero dovuto diventare un terreno di collaudo del suo “voto intelligente”, la strategia elettorale per strappare uno dopo l’altro giunte e municipi al partito putiniano Russia Unita. Un piano d’azione, per uscire da una dimensione puramente virtuale e cominciare non solo a mobilitare l’opinione pubblica in attesa di una svolta a livello nazionale, ma anche a erodere la piramide del potere partendo dal basso. 

 

Il “voto intelligente” - articolazione più dettagliata dell’idea di “votare chiunque tranne il partito dei ladri e dei cialtroni”, con la quale Navalny riuscì già nel 2011, quando era poco più di un blogger, a impedire a Russia Unita di valicare il 50% alle elezioni più contestate della storia della Russia post comunista - prevedeva la concentrazione delle preferenze di protesta sul candidato con maggiori chances di vittoria, indipendentemente dal colore politico: nella lista c’erano autonomi, liberali, comunisti e perfino populisti. L’idea aveva fatto storcere il naso a molti dissidenti, anche perché si trattava di abbandonare il terreno ideale dello scontro dei valori, per passare a tessere alleanze e compromessi e a incassare probabili fallimenti e tradimenti. Ma a Mosca, l’anno prima, il “voto intelligente” aveva già lasciato a casa i mandarini di Russia Unita e non era riuscito a conquistare la maggioranza nella capitale per un solo seggio, nonostante le autorità avessero impedito a tutte le donne e gli uomini di Navalny di correre in prima persona. E a Novosibirsk e a Tomsk si poteva contare su squadre di giovani agguerriti che avevano indagato la corruzione dei “russiuniti” locali con lo stesso piglio e pedanteria del loro leader, venuto ad aiutarli a filmare le video-inchieste al vetriolo da lanciare prima del voto.

 

Giocare in difensiva non era mai stata una tattica di Navalny, e in Siberia aveva avuto la dimostrazione di aver avuto ragione a incalzare e schiacciare l’acceleratore. Nel frattempo in Estremo Oriente, a Khabarovsk, era esploso un altro focolaio di protesta, dopo che il Cremlino aveva rimosso e incarcerato con accuse di assassinio abbastanza fragili il governatore regionale Sergey Furgal (un esponente del partito nazionalista di Vladimir Zhirinovsky che due anni prima aveva vinto le elezioni contro il candidato putiniano).

 

La gente era scesa in piazza e, anche se il governatore licenziato apparteneva senz’altro a una forza politica avversa all’opposizione liberale, la protesta era stata organizzata e ispirata in buona parte dai navalniani locali, con schemi e codici che stavano ormai diventando un marchio di fabbrica. Intanto, il 9 agosto 2020 era scoppiata la maratona di protesta in Belarus (Bielorussia), dove praticamente tutta la repubblica era scesa in piazza contro il dittatore Aleksandr Lukashenko, che aveva arrestato tutti i leader dell’opposizione e poi truccato le elezioni per rubare la vittoria a un triumfemminato di compagne dei suoi nemici incarcerati. Era la dimostrazione della teoria fondante del navalnismo su come stanare gli autocrati post sovietici: denuncia pubblica della corruzione e degli abusi del potere; pressione della piazza pacifica; richiesta di elezioni libere e oneste.

 

 

In altre parole, quel 20 agosto 2020 Alexey Navalny, che aveva compiuto due mesi prima 44 anni, aveva ogni motivo di essere soddisfatto. Ogni suo video su YouTube diventava più popolare del precedente, superando ormai quasi sempre la soglia minima di un milione di visualizzazioni. 

 

La sua organizzazione era diventata abbastanza ramificata da poter sfidare Russia Unita in almeno una quarantina di regioni dello sconfinato territorio amministrativo russo. La gente lo fermava per strada per farsi immortalare con lui e i ragazzi in Rete parlavano con le sue battute, i suoi meme, con la sua voce. La “macchina buona della propaganda” che aveva inventato stava aumentando i giri, trasformandosi da un gioco virtuale in una potenza mediatica, e la pioggia di arresti, incriminazioni, perquisizioni e censure che si stava intensificando di pari passo con i like mostrava che era sulla strada giusta per diventare l’unica alternativa al regime.

 

Il presidente Vladimir Putin aveva paura a pronunciare il suo nome in pubblico. In più, Navalny aveva una moglie con la quale condivideva una grande complicità, una bella figlia che era riuscita a farsi ammettere all'università di Stanford e un figlio che, entrando nell’adolescenza, assomigliava sempre di più al padre. I successivi dodici mesi, iniziando dalle elezioni locali in Siberia nel settembre 2020 e concludendosi con il voto per la Duma nel settembre 2021, avrebbero dovuto fargli fare il passo decisivo. Poteva concedersi qualche ora di relax durante il volo, guardando sul portatile i suoi cartoni fantascientifici preferiti Rick and Morty. Ma non riuscì a concentrarsi sullo schermo. Aveva già nel corpo un veleno mortale che stava cominciando a fare effetto.

 
“Mi hanno avvelenato. Sto morendo”, dice Navalny allo steward, prima di accasciarsi sul pavimento davanti alla toilette. “Avvelenamento” è la prima diagnosi a venire in mente al pilota Kuzmin. “Lo hanno avvelenato”, dice anche l’addetta stampa di Navalny, Kira Yarmysh, alle hostess che stanno cercando di fargli riprendere conoscenza. “Intossicazione di origine ignota” è, in effetti, il preoccupato verdetto dei rianimatori di Omsk che portano in tutta fretta l’oppositore (che nel frattempo aveva smesso di respirare) all’ospedale regionale. 

 

“Alla fine l’hanno avvelenato”, pensano quella mattina del 20 agosto - curiosamente, era l’ottantesimo anniversario del giorno in cui Lev Trotsky venne ucciso a picconate a Città del Messico da un killer di Stalin, e il cinquantesimo anniversario dal giorno in cui i carri armati avevano varcato il confine cecoslovacco per schiacciare, il giorno dopo, la Primavera di Praga - tutti quelli che sentono la notizia

 

Non solo perché un uomo che apparteneva a quella nuova generazione di russi che non fumano, non bevono e postano regolarmente su Instagram le foto delle loro corse nei parchi, in genere non ha molti buoni motivi per smettere di respirare all’improvviso. Navalny ne aveva fin troppi. Il fatto che fosse ancora vivo, e spesso addirittura in libertà (sempre meno, a dire il vero), era fonte di stupore per molti suoi preoccupatissimi ammiratori. Ed era uno dei principali argomenti dei suoi detrattori, che lo accusavano di essere soltanto uno specchietto per le allodole della protesta, un “progetto del Cremlino”. Quella mattina, però, tutto tornò al proprio posto: un nemico del Cremlino non può sopravvivere a lungo, non importa in quale epoca.

 

La prontezza con la quale tutto il mondo pensa subito al veleno, e a una rappresaglia dei servizi segreti, è un risultato clamoroso del modo in cui Mosca aveva gestito la sua politica interna ed estera negli anni precedenti. Il caso dell’avvelenamento con il Novichok dell’ex spia Sergey Skripal e di sua figlia Yulia, nel 2018 a Salisbury, era stato solo l’ultimo, maldestro incidente di “uccisione mirata”. L’avvelenamento al polonio di Aleksandr Litvinenko, a Londra; le esecuzioni dei capi ceceni un po’ ovunque, da Doha a Berlino a Istanbul; le fucilazioni di giornalisti, avvocati dei diritti umani e oppositori come Anna Politkovskaya, Natalia Estemirova e Boris Nemtsov. Tutte queste persone avevano a un certo punto suscitato in coloro che le guardavano, l’inevitabile interrogativo su come mai fossero ancora vive. La morte di ciascuno di loro era stata commentata dal Cremlino con una pioggia di smentite indignate e di accuse velate ai servizi segreti occidentali e/o agli oppositori russi di averli uccisi loro, per farne delle vittime sacrificali. 

 

Politkovskaya fu uccisa a colpi di pistola nel 2006, ma già nel 2004 aveva subìto un misterioso tentativo di avvelenamento, che le aveva impedito di provare a mediare per impedire la strage di Beslan. “In patria non era conosciuta”, “la mia immagine semmai ci rimette dalla sua morte”: questa fu la reazione di Putin al suo omicidio, ed è stata poi ripetuta come un mantra in tutte le circostanze simili, e diversi analisti anche tutt’altro che leali al Cremlino avevano ipotizzato episodi di eccesso di zelo degli esecutori, di servizi “deviati”, di vendette tra 007 o complotti dei vari clan putiniani. Attribuire la responsabilità dell’ordine di eliminazione direttamente al leader suonava stupido, prima ancora che blasfemo: in effetti, soltanto un folle avrebbe voluto danneggiare così tanto la sua reputazione con le proprie mani.

 

Con Alexey Navalny, invece, i dubbi sono spariti ancora prima che tre diversi laboratori internazionali accreditati con l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche avessero stabilito che era stato avvelenato con una versione modificata del Novichok, la famiglia di agenti tossici a uso militare creati in Unione sovietica e quindi proibiti. E’ stato il regime stesso di Mosca ad aver abbandonato qualunque tentativo d’ipocrisia.

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