L'ambasciatore cinese a Londra e i guai con Twitter

Il Wolf Warrior che inciampa sul porno

Giulia Pompili

“Ci hanno hackerato l’account!”, si giustifica la sede diplomatica. O era censura? Lo stato di diritto, solo quando conviene

Liu Xiaoming è l’ambasciatore cinese a Londra, un rappresentante dei cosiddetti Wolf Warriors, i nuovi ambasciatori di Pechino che da qualche tempo hanno una nuova missione: veicolare il messaggio di Pechino (cioè quello del presidente Xi Jinping) in maniera meno composta, più aggressiva, cioè usando il linguaggio occidentale e non quello del grigio burocrate orientale. L’ambasciatore è diventato famoso un paio di mesi fa, quando intervistato da Andrew Marr sulla Bbc gli erano state mostrate alcune immagini riprese da un drone con dei prigionieri caricati su un treno nello Xinjiang, e aveva reagito negando l’evidenza. Il suo profilo Twitter ha più di ottantacinquemila follower ed è un tripudio di propaganda cinese: molte notizie, tutte celebrative, sulla guerra della Cina al Covid, sui risultati scientifici, sulla capacità diplomatica della Cina in contrasto alla “mentalità da Guerra fredda” americana, ancora sulla “splendida armonia” nello Xinjiang – la regione autonoma in cui la minoranza musulmana degli uiguri è oppressa e rinchiusa in campi di lavoro. Se vuoi sapere cosa pensa Pechino di un fatto, basta andare sul Twitter di Liu. 

Però poi ieri è successa una cosa. L’ambasciatore, sempre più occidentalizzato e umanizzato, ha messo un cuoricino, un mi piace a un video porno, che perfino il Sun si è rifiutato di descrivere (per la cronaca, si trattava comunque di dieci secondi di una donna che si infila le calze durante un atto sessuale). Se ne sono accorti tutti, e poco dopo l’ambasciata cinese a Londra se ne è dovuta uscire con un comunicato ufficiale: “Alcuni soggetti anti-cinesi hanno brutalmente attaccato l’account twitter dell’ambasciatore Liu Xiaoming e hanno usato metodi spregevoli per ingannare il pubblico. L’ambasciata cinese condanna fermamente tale abominevole comportamento”. E che sarà mai. Liu ha rituittato il post dell’ambasciata cinese con un proverbio ancora più criptico: “Un’incudine forte non ha paura del martello”.  Insomma, siamo di fronte alla versione cinese del grande classico occidentale: “Mi hanno hackerato l’account”. 


Twitter è censurato in Cina perché il Great Firewall, la muraglia virtuale che impedisce l’internet libero sul territorio cinese, ufficialmente non permette l’utilizzo del social network. Forse anche per evitare cuoricini sgraditi. Di più: sin dal 2014 il presidente Xi Jinping ha iniziato una campagna di pulizia ossessiva del ciberspazio, non solo contro la pornografia ma anche contro tutto quello che non “nutre i valori fondamentali del socialismo”. Insomma, se sei a casa Twitter non si può usare (a meno che non si aggiri la censura usando un Vpn) ma quello che succede in occidente è un’altra cosa. Ai diplomatici in missione all’estero viene chiesto di usare proprio gli strumenti di comunicazione preferiti degli occidentali per veicolare il messaggio cinese. Solo che poi spesso questa divisione dei compiti fa cadere in contraddizioni macroscopiche e arriva a dei nonsense involontari notevoli.

Sul presunto hackeraggio dell’account di Liu Xiaoming, l’ambasciata cinese nel Regno Unito ha chiesto addirittura a Twitter un’indagine, e si riserva “di intraprendere ulteriori azioni”, magari legali. Quelle che in Cina un privato cittadino non potrebbe intraprendere. Twitter è un asset fondamentale per Pechino, e lo abbiamo capito da quanto ci ha investito in termini di propaganda: lo scorso giugno la società di  San Francisco ha rimosso 23.750 account finti riconducibili alla Cina, che diffondevano notizie false su Hong Kong e sul coronavirus. All’inizio di agosto, Twitter ha deciso di segnalare con un avviso tutti gli account istituzionali e quelli dei media legati ai governi di Cina e America (e di Russia, Francia, Regno Unito, gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Hu Xinjing, direttore del tabloid cinese Global Times (anche lui un grande attivo su Twitter, si è ritrovato sotto al nome l’etichetta di “China state-affiliated media”), ha scritto che la mossa del social network è ipocrita, e fatta solo per soddisfare il presidente americano Donald Trump. Un attacco alla libertà di espressione, quella che in Cina, però, è sempre più in pericolo: lo dimostra la vicenda della giornalista australiana Cheng Lei, trattenuta dalle autorità cinesi molto probabilmente per dei post su Facebook un po’ troppo critici con Pechino.  

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.