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Sul fronte della guerra delle statue in America

Daniele Raineri

Altro che dibattito storico e sinistra suscettibile, negli Stati Uniti la questione è viva e specifica. Questi sparano

Roma. La discussione sulle statue e sulla cancel culture è diventata molto astratta, di simbolo da abbattere in simbolo da abbattere si è finito per tirare dentro un po’ di tutto, da Winston Churchill al Colosseo, da quell’antisemita di Karl Marx alla Colonna Traiana. Negli Stati Uniti però il dibattito è molto specifico e attuale. I simboli non sono astratti perché si riferiscono a problemi ancora aperti, a questioni che non sono state risolte e a lotte che sono ancora feroci.

 

Prendiamo quello che è successo in sette giorni tra sabato 30 maggio e sabato 6 giugno. A Las Vegas la polizia ha arrestato tre terroristi di estrema destra che progettavano di appiccare incendi e provocare esplosioni durante le proteste per la morte di George Floyd, per amplificare le violenze. Fanno parte del movimento che vuole creare e accelerare la guerra civile fra le razze e il collasso del sistema americano come lo conosciamo – è un evento che loro in gergo chiamano “boogaloo” – e vedono ogni ondata di disordine e di violenza come una conferma della loro visione. Una settimana dopo un sergente delle forze speciali dell’aeronautica, l’unità Phoenix Raven, ha ucciso un agente di polizia e ne ha feriti altri in un’imboscata nel nord della California. L’Fbi sospetta che l’uomo abbia approfittato delle manifestazioni per la morte di Floyd per uccidere un altro agente il 29 maggio a Oakland, sempre in California. Anche lui è sospettato di appartenere ai fanatici che vogliono scardinare il sistema America. Ecco il problema: la sinistra suscettibile e woke che s’offende un po’ per tutto e porta avanti la cosiddetta “cancel culture” è un gran rumore che ci distrae e ci impedisce di concentrarci sull’altra faccia della questione, quindi sul fatto che c’è un movimento di persone con convinzioni estreme che prende molto sul serio quei simboli e non vede l’ora di aggredire e di cominciare una guerra.

Il più grande successo della destra estrema americana, la cosiddetta alt-right, per ora è il raduno di Charlottesville nell’estate 2018 a protezione della statua del generale Lee (un eroe della Confederazione) piazzata nel mezzo di un parco pubblico. La guerra civile americana è finita nel 1865 e la questione Confederazione è morta e sepolta da tempo, ma i suoi simboli sono ancora molto attivi. Non è roba fredda. Attorno alla statua i convenuti organizzarono una fiaccolata e marciarono al suono dello slogan “You won’t replace us”, non ci sostituirete, che subito divenne “Jews won’t replace us”, gli ebrei non ci sostituiranno. Il giorno dopo un assortimento di milizie armate sfilò nel centro della città, scambiò insulti con le migliaia di oppositori che avevano organizzato un controraduno e poi un miliziano guidò l’auto a tutta velocità contro gli oppositori – un attacco uguale a come l’avrebbe fatto un fanatico dello Stato islamico.

La settimana scorsa il corpo dei marine degli Stati Uniti ha proibito la bandiera confederata e ogni sua declinazione all’interno delle caserme – adesivi, magliette o altro. Anche in questo caso sembra il risultato dell’onda lunga di una polemica culturale diffusa contro i simboli della Confederazione. Ma cinque anni fa quando Dylann Roof, un estremista di 21 anni, uccise nove afroamericani dentro a una chiesa, cominciarono subito a circolare sue foto mentre impugnava la bandiera della Confederazione.

 

La Confederazione era un pilastro del credo politico di Roof, come la Rhodesia, dove negli anni Settanta una minoranza bianca al potere combatté una lotta spietata contro guerriglieri neri e di sinistra che volevano prendere il potere. Nell’agosto 2019 un altro giovane entrò in un Walmart di El Paso con un fucile e uccise venti persone, se si va a leggere il suo manifesto politico si vede che come soluzione migliore e temporanea per il problema delle razze in America lui propone “una confederazione” di stati separati per razze. Qui non si è più nel dibattito astratto su Winston Churchill o sul Colosseo. Questi sparano.

La strage nella chiesa diede un nuovo impulso al movimento che vuole eliminare i simboli della Confederazione dagli Stati Uniti e portò a scoperte interessanti. Il censimento di quei simboli rivelò che la stragrande maggioranza non appartiene al tempo della guerra civile, ma risale a due ondate successive. La prima, quarant’anni dopo la fine della guerra, coincise con il periodo più forte delle cosiddette leggi Jim Crow, che istituirono la segregazione razziale in alcuni stati. La seconda ondata, più o meno un secolo dopo, coincide con le battaglie per i diritti civili negli anni Sessanta. Più che testimonianze storiche sono marker, segni pubblici fatti erigere per rimarcare una posizione politica.

E si arriva a mercoledì quando il presidente americano, Donald Trump, con una serie di tweet perentoria ha respinto il piano del Pentagono per ribattezzare dieci basi americane che oggi portano il nome di soldati confederati. Era un gesto che il Pentagono pensava fosse scontato e invece Trump ha bloccato tutto. C’è chi ha interpretato l’intervento del presidente come un colpo contro il segretario alla Difesa, Mark Esper, che è colpevole di averlo contraddetto sulla faccenda dei soldati da usare nelle città americane – Trump voleva, Esper si è detto contrario davanti ai giornalisti – e c’è chi invece lo ha visto come un altro posizionamento istintivo di Trump, che sa ascoltare la sua base e sa come piazzare un colpo a effetto. In questa battaglia ideologica sulle statue e sui simboli occorre cominciare a fare delle distinzioni, non è tutto un dibattito storico e non è tutta una questione astratta che nasce da troppo zelo e troppa eccitabilità. C’è anche una parte molto attuale e ci sono problemi specifici che per adesso non attirano l’attenzione che lo meriterebbero.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)