I manganelli e il virus

Massimo Morello

Da Bangkok a Giacarta fino a Manila. Nei paesi del sud-est asiatico la prima reazione alla pandemia è stata quella di dare mano libera ai militari. E’ un pericoloso precedente

“Alla fine la via più breve per tornare in Italia sarà via Pechino”, dice una fonte del Foglio a Yangon. “Adesso in Arakan la situazione si complica. Le milizie buddiste sono state mollate perché i cinesi vogliono controllare i traffici di droga verso il Bangladesh”, dice un’altra fonte del Foglio in Myanmar.

 

Le “fonti” sono espatriati, Asian Old Hands che bazzicano il sud est asiatico dai tempi dei beatnik o della guerra in Vietnam, personaggi d’ogni tipo e genere. Tutta gente che dovrebbe conoscere la situazione locale, aiutarti a comprenderla. In tempi di coronavirus le “fonti” diventano “voci”, sempre più incontrollate e incontrollabili. Sempre più spesso pettegolezzi, come già accadeva. Solo che prima erano raccolti in giro, in qualche locale, davanti a un bicchiere. Oggi rimbalzano su WhatsApp o su Line (molto usata in Thailandia).

   

Come spesso accade con queste fonti, il loro vero valore sta nella capacità di trasmettere stati d’animo, sensazioni, immagini. “Yangon è come l’ho vista per la prima volta quando sono arrivato qua, trent’anni fa. Si chiamava ancora Rangoon”, dice una delle fonti in Birmania. Ed è una scena che puoi raffigurarti: una città dalle strade dissestate e di notte illuminata da qualche lanterna e dalle sigarette di gente seduta a bere un tè.

  

In Thailandia, ormai, anche i pettegolezzi irriferibili per non incorrere nella legge di lesa maestà suscitano poco interesse (bisognerà attendere la fine dell’emergenza per vederne le conseguenze). “La cosa che mi ha fatto più effetto? La chiusura dei Seven Eleven. Era accaduto solo per pochissimi giorni durante il coprifuoco del 2014. In quello sotto casa mia non sapevano nemmeno dove fossero le chiavi: non le avevano mai usate”, dice un vecchio residente a Bangkok riferendosi al coprifuoco che ha costretto alla chiusura notturna i popolarissimi minimarket sempre aperti.

  

Per molti altri ha fatto più effetto la chiusura di locali notturni, sale massaggio, bordelli. Questa sì senza precedenti, ha messo in crisi oltre trecentomila “sex workers” impiegate in un settore che, secondo le stime di Empower Foundation, organizzazione di sostegno a queste lavoratrici (e lavoratori), produce circa 6.4 miliardi di dollari l’anno. Alcune si sono spostate in strada (il che può essere una ragione del numero di infrazioni al coprifuoco). Altre, previdenti, già da tempo sono tornate ai loro villaggi. La maggioranza si trova in una sorta di limbo, come accade a molti lavoratori marginali della megalopoli: a Bangkok non hanno più lavoro ma i divieti di spostamenti interni impediscono il ritorno nei villaggi, dove potrebbero contare su un’arcaica economia di sussistenza.

   


In Thailandia ha fatto effetto la chiusura di locali notturni, sale massaggio e bordelli per il coprifuoco. Una misura senza precedenti. Nel sud-est asiatico il virus ha innescato un ritorno alle campagne, amplificato dalla ricorrenza del capodanno lunisolare buddista


 

Nei paesi del sud est asiatico il coronavirus ha dunque innescato un controesodo, un ritorno alle campagne, amplificato dalla ricorrenza del capodanno lunisolare buddista – il Songkran thailandese, il Thingyan birmano – che quest’anno si celebra tra il 13 e il 17 aprile e che è sempre stato l’occasione per un periodo di feste ben più lungo, di visita ai parenti, di celebrazioni nei templi, di abluzioni che simboleggiano la rinascita dopo la stagione secca e la cacciata della cattiva sorte. Ricorrenza divenuta l’occasione di sfrenate battaglie d’acqua, di festeggiamenti più simili a riti carnacialeschi che purificatori. Per evitare gli inevitabili contagi derivanti dal Songkran e dal Thingyan, il governo thai ha spostato le festività a data da destinarsi (e bandito la vendita di alcoolici dal 10 al 20 aprile), mentre quello birmano si è limitato a sconsigliare ogni spostamento.

 


Foto LaPresse


 

Paradossalmente, però, i soggetti più a rischio in questo periodo sono gli occidentali, soprattutto i residuali turisti e quegli espatriati che hanno fatto del sud est asiatico il loro parco giochi. E’ probabile che siano loro quelli per i quali sarà più difficile rinunciare a far festa. Com’è già accaduto nelle isole e nelle spiagge di Phuket o Pattaya. Un comportamento irresponsabile che sta alimentando un crescente sentimento antioccidentale. In rete si diffondono commenti sugli “shit tourists” e sui “goddam farangs” (farang è il termine per gli stranieri non asiatici) che “continuano a divertirsi sulle miserie altrui”.

  

Altri farang, in compenso, sembrano affetti da una sorta di sindrome di Stoccolma. Sono quelli che vivono in Asia da anni, che sino a poco tempo fa erano pronti a criticare usi, costumi, cultura e politica locali proprio perché ne vantavano la conoscenza. Ora invece vogliono omologarsi, sia nella critica agli altri occidentali sia nell’elogio di un sistema che credono possa proteggerli dal virus al pari del calore tropicale (che, come continuano a ripetersi, è la miglior difesa dal Covid-19).

  

E’ tra loro che si trovano molte delle fonti del Foglio. E tra le voci, i pettegolezzi, gli stati d’animo e le analisi più o meno meditate ecco che emergono due tendenze significative: l’asiatizzazione e l’autoritarismo. Sono diffuse in tutti i paesi dell’area, derivanti da una comune cultura, interdipendenti come yin e yang.

 

L’asiatizzazione, in realtà, ha tutte le caratteristiche cinesi. Ed è stato il Covid-19 a operare tale mutazione. Inizialmente, del resto, era denominato il virus di Wuhan e i cinesi – turisti, studenti o lavoratori – erano considerati ospiti indesiderati in molti paesi dell’area. Il virus amplificava una diffusa sinofobia determinata dalla paura di cadere nelle trappole politiche ed economiche disseminate da Pechino lungo le nuove vie della seta. Uno dei maggiori interpreti di questa paura è il cardinale birmano Charles Maung Bo. Per quanto la sua definizione del virus sia sottilmente diversa: l’epidemia in corso è infatti dovuta al “virus del Partito comunista cinese” e non a un “virus cinese”.

  

Nel frattempo, però, l’11 febbraio scorso l’Organizzazione mondiale della sanità ha battezzato ufficialmente la malattia provocata dal virus “Covid-19” proprio per evitare ambiguità e strumentalizzazioni geopolitiche (come ha fatto il presidente Trump stigmatizzando il “virus cinese”), e nel sud est asiatico il virus è divenuto l’ennesimo simbolo dell’inefficienza e della “hybris” occidentale, come la definisce Bai Tongdong, professore di filosofia alla Fudan University, uno dei teorici del neoconfucianesimo.

  

“E’ vero che il virus si è diffuso dalla Cina, ma la capacità di controllo è diversa in ogni paese e la Cina si è dimostrata più capace, mentre negli Stati Uniti e in Europa la situazione ha continuato a peggiorare. Quindi adesso sono loro a dover essere giudicati”, ha detto Thitinan Pongsudhirak, uno dei più noti politologi del sud est asiatico. Secondo questo professore thai, l’opinione pubblica locale viene influenzata dalla propaganda cinese ma questa, a sua volta, deriva da quella americana. Insomma, si è scatenata una guerra tra teorie del complotto, ennesima versione della guerra fredda. Lo spostamento dell’epicentro virale dalla Cina in occidente, inoltre, ha indotto molti governi asiatici a prendere sul serio la minaccia virale senza doversi giustificare nei confronti popolari o, tanto meno, pregiudicare i rapporti con Pechino.

 

La pandemia, insomma, è divenuta una deviazione lungo i tracciati delle vie della seta nel sud est asiatico, una variabile nei megaprogetti della Belt and Road Initiative (Bri). Tanto che già si parla di una “Health Silk Road” (una via della seta sanitaria) e la “soft diplomacy” teorizzata dal governo cinese si ridefinisce come “mask diplomacy”, la diplomazia della mascherina, fornendo supporto nella gestione della crisi (sono stati elaborati progetti di assistenza medica in remoto). Secondo alcuni osservatori, quindi, il Covid-19 potrebbe accelerare i progetti della Bri aumentando la dipendenza dalla Cina in termini finanziari, infrastrutturali e, soprattutto, di connettività (il famigerato 5G al centro di tanti complotti).

 

“Entro il 2040 l’Asia dovrebbe rappresentare il 40 per cento del consumo globale e il 52 per cento del pil. Allora potremmo guardare indietro a questa pandemia come il momento decisivo per definire quando iniziò veramente il secolo asiatico”, si legge in un rapporto della McKinsey & Company. Il boom economico non deriverà dalla globalizzazione, bensì da una “regionalizzazione” in cui produzione e distribuzione si concentreranno lungo le vie di comunicazione asiatiche.

 

In questa prospettiva regionalistica si spiega la stretta del governo birmano nei confronti dell’Arakan Army nello stato del Rakhine. A dispetto delle dichiarazioni del Cardinale Bo (che si dice abbiano irritato anche il Vaticano), Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, cerca di allinearsi alla linea del Pcc. Non sarà perché i cinesi vogliono controllare il traffico di metanfetamine tra Myanmar e Bangladesh, come diceva la nostra fonte. Ma è un fatto che la milizia buddista, divenuta sempre più forte, sta cominciando a disturbarne altre legate a Pechino e rischia di creare incidenti e blocchi lungo il corridoio strategico tra lo Yunnan e l’Oceano Indiano.

  


Dove ci sono conflitti etnici e religiosi, il virus potrebbe facilitare la repressione a opera dei militari o creare occasioni di nuovi scontri. “Dal Vietnam alla Cambogia, dal Laos alla Thailandia, i leader locali vedranno minato il loro potere se non potranno mantenere la crescita”


 

Come accade per qualsiasi cosa riguardi il Covid-19, le voci, le fonti, i dossier delle società internazionali di consulenza manageriale e studi geostrategici intrecciano interpretazioni e informazioni. E in questo caso tutto sembra ricollegarsi a quelle tendenze di asiatizzazione e autoritarismo che per molti sono al tempo stesso cause, sintomi e cura del Covid-19 e che, a loro volta, si giustificano con lo sviluppo economico. “Come in Cina, l’unica vera responsabilità di cui devono farsi carico i governi autocratici del sud est asiatico è sostenere la crescita economica”, ha dichiarato Brian Eyler, responsabile per l’area di un think tank americano. “Dal Vietnam alla Cambogia, dal Laos alla Thailandia, i leader locali vedranno minato il loro potere se non potranno mantenere la crescita”. Una previsione estrapolata da quanto accaduto in seguito alla crisi finanziaria asiatica del 1997-98, che innescò disordini e rivolte in tutta l’area. Ma quella rischia di apparire una semplice tempesta tropicale rispetto al potenziale tsunami del Covid-19. I paesi dell’Asean, l’associazione delle nazioni del sud est asiatico, infatti, sono poco preparati a una pandemia che, in nazioni come la Birmania, potrebbe trasformarsi in un’ecatombe (in tutto il paese, circa 54 milioni di persone, sembra siano disponibili solo 80 respiratori). L’emergenza sanitaria, poi, diventerebbe insostenibile nei campi profughi disseminati tra Bangladesh, Myanmar, Thailandia, Malaysia e Indonesia, creando incontrollabili migrazioni interne e alimentando le tensioni interetniche e religiose tanto da far apparire marginale il problema dei Rohingya che in epoca pre-coronavirus era al centro dell’attenzione umanitaria globale. Nel sud della Thailandia, ad esempio, dove da oltre dieci anni è in atto una rivolta di separatisti islamici che ha provocato oltre 7.000 morti, la situazione potrebbe degenerare. Per il momento sembra si sia arrivati a una sorta di tregua per far fronte all’emergenza virus. Ma il virus stesso potrebbe facilitare la repressione a opera dei militari o creare occasioni di nuovi scontri. Il fatto che 42 nuovi casi in Thailandia siano stati registrati dopo un “dawah”, un pellegrinaggio in Indonesia, non ha contribuito a migliorare il clima. “Molta gente ha paura di morire ma non ha paura di Allah. Noi troveremo la nostra ricompensa in Allah, non in altri”, ha detto un pellegrino in un video riferendosi alle norme per interdire gli spostamenti.

  

“Nell’era del Covid-19 il termine di ‘stabilità nazionale’ si carica di nuovi significati”, ha scritto Bertil Lintner, uno dei maggiori esperti di affari birmani, riferendosi alle leggi che in Myanmar hanno di fatto riconsegnato il governo ai militari. Basti pensare che la task force costituita per far fronte all’emergenza è presieduta da Myint Swe, un ex generale ben noto per la durezza nel reprimere i movimenti d’opposizione (compresa la “Rivoluzione di zafferano” del 2007). Una situazione che la stessa Aung San Suu Kyi non ha potuto contrastare se non con l’apertura del suo primo account privato su Facebook.

  

“Le nozioni di primato civile sono deboli e, con una scarsità di minacce esterne, l’esercito si considera custode della sicurezza nazionale interna, specialmente in tempi di crisi. Le conseguenze della crisi di Covid-19 potrebbero quindi vedere un indebolimento dei confini che avevano iniziato a rafforzarsi tra potere militare e civile”, scrive Michael Vatikiotis, profondo conoscitore del sud est asiatico e autore del saggio-memoir “Blood and Silk: Power and Conflict in Modern Southeast Asia” che analizza le dinamiche dell’area, la faglia in cui collidono due dei più importanti conflitti globali: quello tra occidente e Cina e quello tra tolleranza religiosa ed estremismo, un’area dove “il fucile non è mai lasciato troppo lontano dall’arena politica”. Anche per Vatikiotis il Myanmar è uno dei tanti casi che si replicano in tutta l’area sull’onda del Covid-19: dalla Thailandia, dove il decreto sull’emergenza ha riconsegnato un potere pressoché assoluto al generale Prayuth, alle Filippine – lo “Shoot them dead”, sparategli a morte, del presidente Duterte riferito chi infrange l’isolamento, è divenuto un mantra per i sostenitori della linea dura – all’Indonesia, dove il presidente Joko Widodo ha affidato il comando della task force per il coronavirus a un ex generale delle forze speciali. “Una leadership mediocre, istituzioni deboli e alti livelli di sfiducia pubblica hanno messo in luce la fragilità dei paesi che negli ultimi due decenni hanno compiuto una transizione verso un governo più democratico. La preoccupazione è che per far fronte al Covid-19 alcuni stanno ricorrendo ai militari, che continuano a comandare estese reti di potere”, scrive Vatikiotis in un approfondito articolo sul South China Morning Post.

  

Ben diversa e altrettanto approfondita l’analisi di Bai Tongdong, autore del saggio “Against Political Equality: The Confucian Case”. “Molte democrazie occidentali hanno fallito nel contrasto all’epidemia”, scrive il professore di filosofia. “La parte democratica di una democrazia liberale contribuisce all’inefficacia del governo e può persino minacciare la parte ‘liberale’. La soluzione è un regime ibrido che combina la voce del popolo attraverso elezioni popolari con un maggiore potere decisionale dato ai ‘meritocrati’… Un’alleanza tra l’umano (l’idea confuciana di Ren) e i grandi poteri che vigilano sul mondo”.

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