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Un buco di sei giorni

Giulia Pompili

Che cosa è successo in Cina dal 14 al 20 gennaio, quando già si sospettava la trasmissione del virus da uomo a uomo

Roma. Per sei giorni, dal 14 al 20 gennaio, le autorità cinesi, pur riconoscendo di essere di fronte a una minaccia importante come quella di una “epidemia simile alla Sars” a Wuhan, non hanno preso contromisure adeguate. E solo il 20 gennaio il presidente Xi Jinping ha allertato la popolazione della minaccia ed è stata ufficializzata la notizia della trasmissione del virus da uomo a uomo. E’ il risultato di un’indagine dell’Associated press pubblicata ieri e basata su alcuni documenti riservati e sull’analisi delle pubblicazioni cinesi. Il ritardo nella risposta adeguata all’epidemia, scrive l’Ap, è un errore che hanno fatto molti paesi dopo che il nuovo coronavirus ha varcato i confini cinesi, però l’indagine inizia a far luce su una fase cruciale della pandemia, e cioè il luogo della sua origine, e sulle possibili responsabilità politiche. Durante quei sei giorni probabilmente il governo centrale di Pechino e le autorità locali percepiscono il pericolo sociale di un allarme alla popolazione – le epidemie nei paesi asiatici sono un trauma doloroso, e specialmente in Cina tutte le emergenze che riguardano la salute pubblica. Ma alla luce dei fatti quel ritardo può essere considerato una delle cause – forse la più importante – della pandemia.
   

Il 31 dicembre l’Oms viene avvertita dalla Cina di un possibile focolaio di un virus che somiglia a quello della Sars a Wuhan. I primi pazienti con polmoniti anomale risalgono a metà dicembre (come testimoniato dalle pubblicazioni di vari media cinesi) e il 7 gennaio viene coinvolto direttamente nella risposta anche il presidente Xi Jinping. Eppure fino al 17 gennaio, secondo i bollettini visionati da Ap, centinaia di pazienti che arrivano negli ospedali di Wuhan con sindromi respiratorie non vengono segnalati al database del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Pechino.

   

Tutto cambia il 13 gennaio, un’altra data importante: il primo paziente infettato dal nuovo coronavirus viene ricoverato in Thailandia, e questo mette in allarme i funzionari cinesi. Il giorno dopo viene organizzata una teleconferenza tra il capo della Commissione nazionale di sanità, il ministro Ma Xiaowei e le autorità sanitarie dello Hubei “per avere istruzioni” dal presidente Xi, dal premier Li Keqiang e dalla vicepremier con deleghe alla Sanità Sun Chunlan. Il rapporto di quella riunione è arrivato in forma anonima all’Ap e l’agenzia ha detto di aver verificato la sua autenticità. Il documento dimostra che il 14 gennaio almeno il ministro Ma era molto preoccupato: “La situazione epidemica è grave e complessa, forse l’emergenza più grave dalla Sars nel 2003, ed è probabile che si sviluppi in un più esteso problema di salute pubblica”, dice. Ma soprattutto il ministro sottolinea che “l’andamento dei focolai ci suggerisce che sia possibile il contagio da uomo a uomo”, e quindi, con l’arrivo delle festività legate al Capodanno cinese, il rischio di un’estensione incontrollata dell’epidemia è alto. Lo stesso giorno l’Oms pubblica il famoso tweet in cui dice che “le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove della trasmissione da uomo a uomo”. Da un lato, in risposta alla teleconferenza, al Centro per il controllo delle malattie si costituiscono 14 gruppi di lavoro, e si danno disposizioni alle autorità sanitarie della provincia dello Hubei. Il protocollo da seguire è “interno”, spiega l’Ap, perché l’immagine da dare esternamente è quella di una situazione sotto controllo. Per esempio, nonostante i funzionari di Pechino sconsiglino grandi assembramenti, il 18 gennaio a Wuhan decine di migliaia di persone partecipano al banchetto collettivo per il Capodanno. Dieci giorni prima l’oftalmologo di Wuhan Li Wenliang, che aveva inviato su WeChat ad alcuni colleghi le sue impressioni sull’epidemia, era stato ammonito dalla polizia locale “per aver pubblicato dichiarazioni false su internet. Il suo comportamento può turbare l’ordine sociale”. Controllare le informazioni sull’epidemia resta la cosa più importante, soprattutto per i funzionari locali. La situazione accelera il 19 gennaio, quando Pechino invia gli epidemiologi a Wuhan. Quattro giorni dopo (quattro!), il 23 gennaio, vengono prese le “misure draconiane” celebrate dall’Oms, cioè l’intera regione viene precipitosamente messa in lockdown.

  

Ieri, in un’intervista su Repubblica, l’ambasciatore cinese in Italia Li Junhua ha detto che “l’accusa alla Cina di aver ‘nascosto l’epidemia’ cela secondi fini e malizia. La Cina ha prontamente diffuso le informazioni sull’evoluzione dell’epidemia”. E fa un elenco: “Il 27 dicembre un medico di Wuhan ha riportato i primi tre casi sospetti, il 29 il Centro per il Controllo delle malattie e gli ospedali locali hanno avviato le indagini epidemiologiche, il 3 gennaio la Cina ha iniziato a fare rapporto all’Oms e agli altri Paesi, Stati Uniti compresi, l’11 gennaio ha condiviso le sequenze genomiche. I fatti sono questi”. E conferma ed estende, involontariamente, il buco di cui parla l’Ap: che cosa è successo dall’11 al 23 gennaio?

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.