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Il coronavirus è la Chernobyl cinese? Due disastri simili, ma in regimi diversi

Giulia Pompili

Xi Jinping è più forte di Gorbaciov. La Cina non è l’Urss

Roma. Chernobyl è l’esempio più evocato in queste settimane di emergenza in Cina. Il caos che è venuto dopo l’incidente nella centrale nucleare di Pripyat, nel 1986, è considerato l’inizio della caduta dell’Unione sovietica. Con il disastro i russi capirono che lo stato non era più quello che salvava i suoi cittadini, piuttosto tentava di nascondergli la verità: si era rotto il patto sociale che teneva in piedi il sistema.

 

Mikhail Gorbaciov, magari non direttamente responsabile ma leader di un’autorità sfiduciata, da quel momento accelerò il processo di riforme, glasnost e perestroika, trasparenza e ricostruzione. Così, secondo vari analisti, il contagio da coronavirus di queste settimane, che ha suscitato non solo nell’area dello Hubei, l’epicentro dell’epidemia, ma in tutta la Cina così tanta opposizione, potrebbe essere l’inizio della fine del Sogno cinese dell’uomo forte al comando, Xi Jinping. Lo ha scritto per esempio il commentatore del Washington Examiner Tom Rogan: “In entrambi i casi, i due regimi comunisti hanno atteso a lungo prima di ammettere di avere un problema, mettendo l’illusione del controllo e della stabilità del governo davanti alla sicurezza di vite umane. Questo ha provocato l’aumento inutile di rischi e di morti. In entrambi i casi, la mancanza di trasparenza ha aumentato il rischio per il resto del mondo. In entrambi i casi, la leadership non si è assunta le responsabilità”.

 

Eppure, l’Unione sovietica di allora e la Cina di oggi sono due potenze imparagonabili, così come non è paragonabile il loro sistema. Una differenza fondamentale riguarda la classe media cinese, che da anni ormai è in crescita – specialmente in un’area come quella di Wuhan, la “Detroit cinese”. In un contesto simile, la manipolazione inconsapevole dei cittadini è molto meno scontata di quanto sembri. La fiducia dei cinesi nei confronti dei funzionari del Partito in passato è stata compromessa più volte, senza mai in realtà portare grandi sconvolgimenti sociali: e il motivo è che l’economia cinese marcia, funziona, e le sacche di povertà sono una minoranza. “Ci sono alcuni elementi che di sicuro ricordano il disastro di Chernobyl”, ha scritto Clara Ferreira Marques su Bloomberg, “ma la Cina qualcosa ha imparato dall’epidemia di Sars del 2003”, e rispetto all’Urss, “deve combattere con i social media”, controllati ma non del tutto. Inoltre, ci sono differenze politiche: “Nel 1986 Mosca era già pronta per un cambiamento”, mentre a Pechino la struttura guidata da Xi Jinping è solida.

 

“La più grande differenza è comunque nel simbolismo. Chernobyl ha demolito l’essenza stessa dello stato sovietico, un intero sistema costruito sul mito del potere militare ed economico”. Per la Cina questa narrativa non funziona. “Il paragone è seducente”, ha scritto sul Monde Sylvie Kauffmann, “Possiamo persino trovare una dimensione eroica comparabile nel destino del giovane medico Li Wenliang di Wuhan, che ha tentato senza successo di avvisare le autorità del virus e la cui morte, annunciata il 7 febbraio, ha provocato un’ondata di emozione e indignazione […] e quella della dozzina di vigili del fuoco che si sono esposti alle radiazioni di Chernobyl”. La differenza fondamentale, prosegue la Kauffmann, è nella strategia di potere di Mikhail Gorbaciov e di Xi Jinping. Il primo, da un anno al potere nel 1986, voleva sfruttare lo slogan dell’apertura per dare il segnale di un cambiamento: “L’obiettivo della glasnost, all’inizio, non era di promuovere la libertà di espressione, ma di consentire al segretario generale di basare la sua strategia sulla critica dei difetti del sistema”. Per il presidente Xi Jinping non c’è niente da criticare. Anzi: il lavoro della propaganda cinese di queste settimane dimostra il contrario. Gli ospedali costruiti in tempi record, le misure draconiane, il grande sacrificio dei cittadini in quarantena. Perfino il licenziamento di alcuni funzionari del partito locali. La “guerra” che sta combattendo Xi è contro “il diavolo”, come ha definito il leader cinese il nuovo virus. Quando l’emergenza finirà, il suo Sogno cinese avrà un nuovo capitolo. E forse giustificherà sempre di più certi controlli orwelliani, scrive Kauffmann.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.