Un combattente libico vicino al governo di unità nazionale di Fayez al Serraj si scontra con le milizie di Haftar alle porte di Tripoli (Goran Tomasevic/Reuters)

Il libico tragicomico Di Maio

Daniele Raineri

Leggere la nota distribuita ai giornalisti durante la visita del ministro a Tripoli per realizzare che il wishful thinking grillino non funzionerà (nemmeno) in politica estera

Martedì 17 dicembre il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, è volato in Libia per incontrare – in luoghi diversi – i capi delle due metà del paese impegnate in una guerra civile. Quel giorno nel tardo pomeriggio l’ufficio stampa del ministro passò ai giornalisti una nota che avrebbe dovuto in qualche modo spiegare lo scopo e la riuscita del viaggio, oltre a fornire dettagli interessanti a proposito degli incontri faccia a faccia con gli uomini più importanti della Libia. A leggere quella nota però si sente uno scollamento totale dalla realtà: quello che c’era scritto non è quello che stava succedendo e che sta succedendo in Libia. Lo spin, l’arte di comunicare i fatti in un modo oppure in un altro, è un ingrediente della politica ma non si può eccedere altrimenti si rischia di fare come quel ministro di Saddam Hussein che in tv voleva rassicurare gli iracheni sull’andamento eccellente della guerra contro gli americani mentre già i carri armati americani entravano nella capitale. E infatti è successo che in appena tre settimane dalla visita di Di Maio la crisi libica ha accelerato e la situazione, che già era seria, è diventata complicata in modo orrendo. Due blocchi internazionali molto agguerriti hanno trasformato la Libia nel loro terreno di scontro e l’Italia, che anche soltanto per la prossimità aveva un ruolo cruciale nelle vicende di quel paese, è lasciata in disparte a temere per le conseguenze. Qui sotto pubblichiamo tutta la nota in corsivo, refusi inclusi, ma divisa per paragrafi e accompagnata da alcuni brevi commenti. A suo modo, è un documento di un tempo in cui si poteva annunciare l’abolizione della povertà – questa volta però si parla di politica estera. Ambienti della Farnesina sentiti dal Foglio confermano che la nota non è stata scritta da loro.

 

Di Maio sceglie di riprendere il pallino in mano e al primo viaggio in Libia incassa l’endorsment di Haftar: “Se l’avessi conosciuta prima oggi forse avremmo già firmato un accordo. Rivediamoci. Anche il mese prossimo a Roma”. L’opera di moral suasion di Di Maio è intensa. L’obiettivo è riprendere la leadership in Libia dopo il terreno perso nei mesi scorsi. E Di Maio in un giorno sceglie di incontrare tutti.

 

Va a Tripoli, dove vede Maitig e Serraj; va a Bengasi, dove incontra appunto Haftar. Poi Tobruk, perché la voce dell’Italia arrivi ovunque.

La nota di Di Maio parla della “moral suasion” del ministro sui leader locali, che intanto non si preoccupano di lui

L’opera di moral suasion del ministro Di Maio in Libia è stata intensa, dice la nota. Eppure dopo il 17 dicembre è successo che il presidente della Turchia Erdogan ha annunciato un intervento militare in Libia – con soldati, mezzi da combattimento e anche un contingente di mercenari siriani – a favore del governo di Tripoli, per rompere l’assedio del generale Haftar. Dall’altro lato, l’Egitto ha annunciato che manderà i suoi carri armati per appoggiare il generale Haftar e aiutarlo nella campagna per conquistare con la forza Tripoli. Inoltre il generale, grazie al denaro messo a disposizione dai paesi del Golfo, ha assoldato centinaia di mercenari sudanesi che, ignari della moral suasion di Di Maio, stanno arrivando in Libia per combattere e “sono così tanti che non sappiamo dove metterli”, come dice un loro comandante appena intervistato dal giornale britannico Guardian.

 

Ma di questo parleremo meglio più avanti. Ora ci preme sottolineare come il primo paragrafo della nota sia interessante perché senza volere tradisce per due volte il concetto che nemmeno il più abile degli spin doctor riuscirebbe a nascondere: l’Italia ha trascurato la crisi libica e ora tenta un recupero del ritardo. Eppure la Libia è sempre stata un paese centrale nella nostra politica estera per molte ragioni. C’è la questione energia, con gli investimenti molto sostanziosi di Eni. C’è la questione immigrazione: la costa libica è usata come scalo dai trafficanti che portano centinaia di migliaia di persone verso l’Europa. C’è la questione terrorismo: fino a tre anni fa centinaia di chilometri di costa libica erano sotto il controllo dello Stato islamico, il gruppo terroristico più pericoloso del pianeta, e il rischio non è passato. Almeno due attentati in Europa – quello di Manchester e quello di Berlino – sono stati collegati dagli investigatori a mandanti in Libia. Eppure siamo in questa fase, a “riprendere il pallino in mano” e a scrivere che “l’obiettivo è riprendere la leadership in Libia dopo il terreno perso nei mesi scorsi”. L’offensiva contro Tripoli che ha scatenato la guerra civile in corso è cominciata il 4 aprile ed è certo che i servizi italiani, che sorvegliano bene l’area da sempre, avevano avvertito della possibilità di un conflitto. Sono trascorsi più di otto mesi (Di Maio non era ancora ministro degli Esteri, ma nel suo caso sarebbe difficile dare la colpa ai governi precedenti: il Conte 1 era un esecutivo a guida grillina ed era anche più forte del Conte 2). In questi otto mesi c’è stata una escalation impossibile da non notare. Droni degli Emirati arabi uniti hanno cominciato a bombardare per conto del generale Haftar anche l’aeroporto di Misurata che tra le altre cose contiene un ospedale da campo tenuto in funzione e presidiato da trecento soldati italiani.

 

Si legge che l’Italia deve “riprendere la leadership dopo il terreno perso nei mesi scorsi”, ma chi c’era al governo nei mesi scorsi?

I droni emiratini – in violazione dell’embargo sulle armi in Libia – facevano esplodere aerei da trasporto militare arrivati dalla Turchia – anche quelli in violazione dell’embargo – sulla pista dell’aeroporto a circa cinquecento metri dai soldati italiani e ad agosto un aereo italiano incaricato dei rifornimenti ai militari dovette invertire la rotta e tornare in Italia per non finire in mezzo al fuoco. Nel frattempo Mosca ha spedito in Libia centinaia di cosiddetti mercenari, che a differenza delle truppe regolari consentono di intervenire senza assumersi la responsabilità ufficiale dell’intervento. La notizia è stata confermata dal governo americano e da articoli nel New York Times e nel Washington Post. Il sei dicembre, quando Di Maio ha incontrato a Roma il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, a domanda diretta sulla presenza di russi in Libia ha risposto così: “Non ci risulta ancora. Lo dicono gli americani e i libici. Non ne ho parlato con Lavrov”. Doveva arrivare il 17 dicembre perché Di Maio “scegliesse di riprendere il pallino in mano”.

 

Di Maio assume toni decisi, a Serraj rimprovera l’accordo coi turchi: “Dovevate dircelo, così non va bene”, ma ribadisce il “massimo sostegno dell’Italia” al governo di unità nazionale. Siamo qui “per aiutare - poi aggiunge il ministro degli esteri italiano - ma vogliamo anche delle risposte”. In sostanza: niente scherzi. Ne’ nel rapporto con i turchi, ne’ muri sul consolato a Bengasi, che l’Italia vuole aprire per piantare un’altra bandiera con la controparte.

 

Nella prima metà di dicembre il premier di Tripoli, Fayez al Serraj, ha stretto un memorandum di intesa con la Turchia che ridefinisce l’estensione nel mare Mediterraneo delle zone di interesse di Libia e Turchia. Dal punto di vista diplomatico, Serraj è una creazione della diplomazia italiana, tre anni fa fu messo a capo di un governo riconosciuto dalle Nazioni Unite grazie a una fitta serie di negoziati che furono sponsorizzati dall’Italia e da allora in teoria la sua posizione non è mutata. Di Maio arriva a Tripoli il 17 dicembre e con toni decisi rimprovera Serraj di avere fatto un accordo con i turchi. Cosa succede a quel punto? Dopo i rimproveri di Di Maio, Serraj chiama la Turchia e questa volta chiede a Erdogan di entrare direttamente in guerra per difendere Tripoli. Se prima c’era un accordo, ora c’è un’alleanza militare di natura esistenziale: senza i turchi Serraj rischia di fare una fine brutta. E’ chiaro che “il massimo sostegno da parte dell’Italia” promesso dal ministro non suona convincente.

 

La convinzione di Di MAIO è che non c’è più tempo da perdere e che l’Italia deve presentarsi nuovamente come un Paese guida. Sempre a Tripoli Di Maio invita Serraj a rispettare i principi della convenzione di Ginevra sui migranti e a migliorare le condizioni di chi vive nei centri di detenzione, poi condanna senza mezzi termini le interferenze di altri Paesi, definite “inaccettabili” e rassicura Serraj sul rapporto con gli USA: “Chiamerò io Pompeo”. 

 

La convinzione del ministro è che non c’è più tempo da perdere. Ottimo, qualcuno avvisi la Farnesina. E’ interessante il passaggio in cui chiediamo a un governo sotto assedio di rispettare i principi della convenzione di Ginevra sui migranti e di migliorare le condizioni di chi vive nei centri di detenzione. In teoria gli accordi dell’Italia con Tripoli sull’immigrazione scadono nel 2020, ma il governo libico potrebbe rispondere con onestà che non sa se esisterà ancora fra qualche mese, considerato che è sotto assedio, bombardato dai droni emiratini e circondato da milizie che includono russi bene addestrati. Gli stessi articoli di giornale che hanno raccontato la visita di Di Maio riferiscono di rumori lontani di artiglieria. Come in queste condizioni si possa dettare condizioni ai capi di Tripoli senza sembrare distanti dalla realtà non è dato sapere. Il che spiega perché poi si rivolgono a Erdogan da una parte e alla Russia dall’altra.

 

Di maio è in continuo contatto telefonico anche con gli altri omologhi europei, in primis di UK, Francia e Germania. È dell’idea che si debbano coinvolgere tutti gli attori per una pace in Libia, inclusi turchi, russi ed Emiratini e vuole lavorare in questo senso perché l’Italia torni ad assumere un ruolo di protagonista e di leadership.

 

Di nuovo, si insiste sul fatto che l’Italia dovrebbe tornare ad assumere un ruolo di protagonista e di leadership – il ruolo che avevamo prima del 2018, ma questo non è specificato.

 

Ma soprattutto, è convinto che occorra giocare con tutti gli interlocutori “la carta della franchezza”. È il motivo per cui, anche con Haftar, Di Maio non nasconde le sue perplessità sull’avanzata, invitando il generale a riflettere sul fatto che “Italia e Libia saranno sempre due Paesi vicini e per questo si devono parlare con franchezza, la geografia non si può cambiare e come Italia siamo i più interessati a una Libia stabile e in prosperità”. Oltre un’ora di colloquio tra i due a delegazioni presenti. Di Maio e Haftar si trovano, si prendono, tanto che lo stesso Haftar a un certo punto si lascia andare: “Lei deve essere orgoglioso di se stesso, può essere l’esempio di tutti i giovani libici, un modello. Se l’avessi conosciuta prima, oggi forse avremmo già firmato un accordo. Rivediamoci. Anche il mese prossimo, a Roma”, gli dice Haftar. “Le sue parole sono importanti, io sono dell’idea che bisogna smetterla con le foto opportunity e darsi da fare concretamente”, replica Di Maio. Si stringono la mano, poi l’invito alle delegazioni a lasciarli soli per un ulteriore momento di confronto, più riservato. 

 

Si insiste sulla “franchezza” con Haftar, allora perché non sollevare la questione del drone italiano abbattuto e mai restituito?

Qui non si sa da che parte cominciare. Al cospetto del generale Haftar il ministro Di Maio vuole giocare la carta della franchezza e di conseguenza “non nasconde le sue perplessità sull’avanzata”, che è una formula gentilissima per coprire la brutalità dei fatti: il generale ha scatenato una guerra civile per impadronirsi della capitale e diventare il nuovo uomo forte della Libia. Di Maio “invita il generale a riflettere, si trovano, si prendono, Haftar a un certo punto si lascia andare: Lei è un esempio per tutti i giovani libici”. Ottimo, ma il 20 novembre, meno di un mese prima della visita di Di Maio, le forze di Haftar hanno abbattuto un drone militare dell’Italia del valore di almeno quattro milioni di euro. Hanno rivendicato l’abbattimento il giorno stesso e hanno chiesto spiegazioni a Roma (il drone aveva una regolare autorizzazione da parte del governo di Tripoli). I libici non hanno ancora restituito quel che resta del drone. La questione non è mai stata sollevata da Di Maio. Il ministro italiano agli elogi del generale Haftar ha risposto che “bisogna smetterla con le photo opportunity e darsi da fare concretamente”. L’Italia non ha fatto una sola proposta concreta in otto mesi di conflitto. Il ministro dice che è necessario attendere la Conferenza di Berlino, come se “Conferenza di Berlino” fosse una formula magica capace di fermare la guerra civile in Libia, ma in realtà non c’è nemmeno ancora una data per la Conferenza. Viene da chiedersi con quanta credibilità l’Italia potrà agire in Libia se la linea è fingere che un drone non sia stato abbattuto e che ci sia una Conferenza che ancora non c’è.

 

L’obiettivo è tornare a fare breccia in uno scenario complesso come quello libico. Sullo sfondo c’è il timore che possano aumentare i flussi migratori, la minaccia terroristica e l’Eni.

 

Serraj è una creazione della diplomazia italiana, ma adesso stringe patti di difesa con il presidente turco Erdogan

Quello di oggi, da parte di Di Maio, è stato solo il primo passo. Ne seguiranno altri, anche con i Paesi vicini con cui Di Maio si era già riunito a cena in occasione dei Med. Al rientro a Roma, infine, prima della conferenza, il ringraziamento personale al corpo diplomatico e all’Aise. “Il sistema Paese c’è ed è forte, è la politica - dice loro Di Maio,.

 

prima di congedarsi, al rientro da Tobruk - che deve sapere come dargli impulso. Io farò il massimo e intanto vi ringrazio per lo straordinario lavoro che fate ogni giorno”. 

 

La nota su questo è sincera: diplomatici e servizi segreti sanno fare il loro mestiere, hanno canali ottimi, hanno organizzato un viaggio che pochi paesi possono permettersi. Ed è anche sincera sul “tornare a fare breccia in un sistema complesso come quello libico”. Tornare. Una volta ci occupavamo di Libia, poi abbiamo perso l’iniziativa.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)