Il presidente democratico della commissione Giustizia della Camera Jerry Nadler (foto LaPresse)

I democratici all'“Impeachment Show”

Paola Peduzzi

I moderati alla Camera si schierano contro Trump, anche se rischiano di non essere rieletti nel 2020. Ma questo è un processo alla rovescia, e toccherà a loro (non al presidente) giustificarsi con gli elettori

Roma. Uno alla volta, i deputati democratici moderati d’America hanno detto che voteranno a favore dell’impeachment del presidente Donald Trump, nonostante le pressioni cui sono stati sottoposti e la lettera che ha scritto ieri il presidente. Da giorni questi politici, che vengono da stati e aree rosse, erano oggetto di un corteggiamento ossessivo – i metodi trumpiani non sono mai delicati – da parte dei repubblicani: non mettete sotto accusa Trump, non vi conviene, vi giocate la carriera. Da settimane i loro elettori vedono su Facebook messaggi di allerta, in cui i deputati sono descritti come troppo antitrumpiani per essere davvero rappresentanti fedeli a Washington, e così ora ai democratici moderati che si sono schierati “per ragioni di coscienza” toccherà dover spiegare le loro ragioni ai propri elettori.

  

 

Questo è soltanto uno degli elementi – politicamente devastanti – della storia dell’impeachment, che finora si è svolta tutta alla rovescia rispetto alle aspettative dei democratici. Dovrebbe essere Trump a spiegare le proprie ragioni visto che è accusato di abuso di potere e di ostruzionismo nei confronti dei lavori del Congresso (nelle 300 pagine redatte dalla Camera c’è una parte estesa dedicata alle intimidazioni presidenziali), invece no, lui scrive lettere contro la caccia alle streghe, e i democratici che lo accusano si devono giustificare.

 

I soldi, come spesso accade, illustrano alla perfezione cosa è accaduto: ieri il sito Axios ha raccontato che i repubblicani hanno trovato nell’impeachment il loro Eldorado. Seicentomila nuovi donatori da quando è iniziata la procedura, nelle 72 ore dopo l’annuncio della Speaker della Camera, Nancy Pelosi, sull’avvio dell’inchiesta, i repubblicani hanno raccolto 15 milioni di dollari. La settimana scorsa, quando la commissione Giustizia alla Camera ha delineato i capi di imputazione nei confronti di Trump, nelle casse del Partito repubblicano sono arrivati altri 10 milioni di dollari.

 

Al contrario, i democratici non hanno registrato alcun balzo grazie all’impeachment, o almeno non hanno alcun dato da condividere in proposito: i messaggi legati alla messa in stato d’accusa funzionano bene e sono efficaci, fanno sapere dall’ufficio dei democratici alla Camera, e alcuni deputati hanno avuto un incremento di fondi grazie alle loro performance in Aula durante le testimonianze, ma i numeri non sono paragonabili con quelli repubblicani. O almeno così sembra, può essere che i trumpiani esagerino, ma il riassunto della storia dell’impeachment è proprio questo: hanno vinto le esagerazioni dei repubblicani, e del loro leader, l’esagerato in chief Donald Trump. Tanto per dire l’ultima (che non può essere l’ultima, perché il presidente è in perenne tempesta tuittarola), prima della lettera inviata alla Pelosi ieri sera: “La bufala dell’impeachment è la truffa più grande della storia della politica americana!”.

 

I democratici avevano messo in conto la possibilità che i moderati elettoralmente più vulnerabili potessero non schierarsi a favore dell’impeachment: il rischio è molto alto, visto che il voto alla Camera è quasi certamente contro Trump e quello al Senato quasi certamente a favore di Trump (quindi il presidente resta dov’è). Se sai già come va a finire, perché dovresti mettere a repentaglio la rielezione? I moderati hanno invece deciso di correre il rischio, in nome di una coerenza e di una responsabilità che sentono molto forte: poi andremo a spiegare ai nostri elettori perché abbiamo avuto ragione, impeachment o no, ad aprire questa inchiesta e a portarla fino al Senato.

 

Elissa Slotkin, eletta in Michigan per la prima volta nel 2018 e diventata in questi giorni il volto dei moderati (una ventina di deputati) che si schierano a favore dell’impeachment, ha scritto in un articolo che ci sono “alcune decisioni nella vita che devono essere prese sulla base di quello che senti giusto fin dentro al midollo”, anche se “mi è stato detto molte volte che posso essere certa del fatto che il mio voto segnerà la fine della mia breve vita politica”. Joe Cunningham, deputato della Carolina del sud, ha detto che se avesse voluto “farla politicamente facile per me stesso, avrei votato no e sarei passato oltre”, ma non vuole farla facile, vuole farla giusta. Ci sono anche movimenti inversi, come quello chiacchieratissimo di Jeff Van Drew, deputato del New Jersey, che vuole passare con i repubblicani per mettere fine alla farsa dell’impeachment, ma secondo le previsioni, la maggioranza semplice richiesta alla Camera per ogni capo di imputazione dovrebbe essere garantita. Ma pure se l’unità della sinistra dovrebbe essere un segnale forte in un momento di grandi divisioni come questo (mancano 47 giorni alle primarie), pesa molto di più l’aria di sconfitta. I repubblicani potrebbero uscire ringalluzziti dal processo, sia politicamente sia finanziariamente, mentre i democratici dovranno spiegare perché s’è perso tanto tempo dietro a una causa inutile. E molti commentatori sono già alla fase successiva: quanto vale, quanto funziona e quanto costa oggi un pentimento.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi