Il leader del Brexit Party, Nigel Farage, firma il suo "contratto con il popolo" (foto LaPresse)

Anatomia di un delitto imperfetto: nel voto inglese la Brexit non pesa più, anzi sì

Paola Peduzzi

“Il popolo contro il popolo”, il saggio di Antonello Guerrera

Milano. Pareva impossibile, ma nelle cosidette “Brexit Elections” che si terranno il 12 dicembre nel Regno Unito non c’è la Brexit. Non c’è, fa quasi impressione, scorgi sguardi spaesati che spuntano dai talk show, articoli indignati del fatto che Boris Johnson abbia davvero una gran fortuna visto che nessuno parla più del suo accordo con l’Unione europea, che aveva convinto la maggior parte dei parlamentari ma pareva perfettibile, e ti pare di vedere quelle coppie che si sono accapigliate per mesi e anni su ogni cosa che a un certo punto si sono stancate ma sembrano comunque insoddisfatte: se non litighiamo più per la Brexit, che abbiamo da dirci? Da dirsi c’è molto naturalmente, si parla del futuro del paese, come lo immaginano i cautissimi conservatori e quello che invece propongono i radicalissimi laburisti, ma anche se ormai non lo dice più nessuno si sa che buona parte di quello che sarà e potrà il Regno dipende dalla Brexit, dai suoi tempi, dai suoi equilibri, dalla sua concreta fattibilità. Therese Raphael, che scrive commenti sulla politica europea su Bloomberg Opinion, dice che il premier Johnson sta facendo una “corsa gratis” grazie anche al suo rivale Jeremy Corbyn, leader del Labour che di Brexit non ha mai voluto parlare: così, conclude la Raphael, ci sarà un accordo che non avrà passato nessun genere di verifica o scrutinio, poi non venite a lamentarvi delle fantasie al potere.

 

Gli inglesi esausti per ora sembrano non accorgersi di questa grande assenza, o forse la vedono ma tacciono: i dibattiti tra candidati non sono più monotematici, che sollievo, vedi mai che torniamo a essere un paese normale. Ma questa è un’illusione, come ci ricorda “Il popolo contro il popolo”, il saggio di Antonello Guerrera, corrispondente di Repubblica a Londra, che racconta come la Brexit abbia trasformato non soltanto il Regno Unito e l’Unione europea ma la democrazia stessa. Questo è un libro in presa diretta sulla Brexit, pieno di conversazioni, di luoghi, di sguardi che raccontano la disperazione di essersi trovati in una situazione unica, speciale e ingestibile. Robert Harris, che Guerrera definisce “uno dei più grandi scrittori inglesi viventi”, dice in uno dei pranzi che ogni tanto si concedono insieme a Kintbury, un centinaio di chilometri dalla capitale, che gli pare di stare in mezzo ai patrizi della fine dell’Impero romano “che cercarono di far rivoltare il popolo contro le élite. A Roma finì malissimo”. Harris è impietoso con tutta la classe dirigente britannica, Guerrera lo ascolta, come fa con i suoi tanti interlocutori, ma conserva il suo occhio indulgente che ha descritto all’inizio di questo suo viaggio nel significato culturale della Brexit: non sappiamo chi ha ragione, non sappiamo se questo divorzio sarà un disastro o un’opportunità o persino entrambe le cose, come spesso accade con le questioni importanti della vita che non sono né bianche né nere. Quel che Guerrera sottolinea con forza però è che la Brexit ci riguarda tutti, e leggere queste pagine mentre persino gli inglesi si sono stufati di litigare sul divorzio impossibile ha l’effetto di una sveglia: addormentarsi sulla Brexit non è una possibilità. Perché, scrive l’autore, c’è “una linea rossa che lega la Brexit, i sovranismi e la xenofobia in occidente, e dunque la recente emersione di partiti e leader populisti, di destra e sinistra, in Europa e negli Stati Uniti. Tutti questi fenomeni condividono una reazione alla ‘perdita di controllo’”. Il format della Brexit non è soltanto frutto di una contaminazione – Guerrera intervista il milionario pro leave Arron Banks che dice di essersi ispirato, anzi di avere proprio “copiato” la Casaleggio Associati nella costruzione della mobilitazione a favore della Brexit – ma è anche causa di questo contagio che stravolge ogni cosa e trova quiete soltanto di fronte a leader che promettono che il controllo tornerà nelle mani dei cittadini, delle nazioni. La quiete assicurata da leader incendiari? Il paradosso è tutto qui, ed è qui che le democrazie corrono i rischi più grossi perché non trovano la sintesi tra il desiderio di controllo e la spinta verso una politica che fa del subbuglio la sua folgorazione.

 

Il Regno Unito con la Brexit ha la sua specificità, un paradigma che tutti studiamo per capire se ci salverà – non vorrete finire tutti come gli inglesi? – o ci condannerà – guardate gli inglesi, ce l’hanno fatta – e intanto tiriamo il filo del controllo che indica Guerrera, e troviamo nel silenzio elettorale sulla Brexit un po’ di strano, inatteso conforto.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi