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La fatal caduta

Micol Flammini

Il Muro di Berlino è crollato dopo due parole pronunciate in fretta dall’annoiato portavoce della Ddr. Così è nato il “momento Schabowski”

Durante gli ultimi giorni, il Muro era più statico del solito. Sembrava sentire il peso dei suoi trent’anni trascorsi in piedi, dei tunnel scavati per passargli sotto, delle crepe. Cresceva di anno in anno, un po’ di cemento di qua, lastre di alluminio di là. Diventava più alto e più fragile, confine di un territorio, la Germania dell’est, che si stava svuotando. La Ddr, Repubblica democratica tedesca, nel Muro aveva riposto denaro e rabbia, vedeva nella sua crescita, nella sua impenetrabilità, il riflesso del successo. Erich Honecker, penultimo dei presidenti della metà di nazione, lo aveva reso mastodontico, sognava di aggiungerci telecamere, sensori, infrarossi, laser, ma anche una siepe per renderlo più gradevole. Voleva qualcosa di più, voleva fosse un simbolo, un monumento, oltre che l’argine di un mondo che andava protetto dall’altro, quello dell’ovest, della libertà di pensiero ed economica. Il Muro era curiosità, l’ovest spiava l’est attraverso le fessure e l’est, non potendosi avvicinare, si limitava a immaginare l’ovest. Negli anni Ottanta si era fatto stanco, era diventato un elemento geografico, un punto di orientamento urbano. Con il tempo il rapporto dei cittadini con il muro iniziò a cambiare, era diventato quasi una catena alpina, i tedeschi si erano assuefatti a quella presenza ingombrante.

  

Negli anni Ottanta il Muro era diventato un confine geografico, una catena alpina. Sempre più grosso e sempre più fragile

Tutto scivolò via, veloce. Honecker aveva bisogno del pugno di ferro, sapeva che sarebbe bastato un attimo per far dissolvere la Germania orientale, ormai diventata uno stato in bancarotta. Trovò una risorsa inaspettata: i dissidenti. Honecker strinse un accordo con la Germania occidentale, i dissidenti venivano usati come merce di scambio per ottenere del denaro, l’ovest pagava fino a centomila marchi e la Ddr riuscì a ottenere un totale di tre miliardi. L’occidente pose le sue condizioni, obbligò Honecker a rinunciare alle trappole esplosive poste sul confine, un’arma in meno per il Muro. Soltanto nel 1984 ottennero il permesso di andare di là trentacinque mila persone. Il partito investì quel denaro in ulteriori fortificazioni lungo la frontiera, fortificazioni interne, in aria e sulla costa baltica. Il sogno era rimanere isolati, per durare più a lungo possibile. Prima l’arrivo di Mikhail Gorbaciov e la sua voglia di riforme.

 

Poi la visita di Ronald Reagan a Berlino e quel “Mr. Gorbaciov, tear down this wall”, che oltrepassò la porta di Brandeburgo tra milioni di applausi e giunse fino al Cremlino. Ai festeggiamenti per i quarant’anni della Repubblica popolare tedesca, il 7 ottobre del 1989, i berlinesi dell’est urlavano al segretario del partito comunista: “Gorbi, salvaci!”. Per Honecker le cose sarebbero potute andare avanti così per sempre, il mondo lo si poteva guardare da dietro il muro, andava bene lo stesso, tutto il sistema per lui era indistruttibile, sarebbe stato sufficiente tenerlo isolato. Ma durante i festeggiamenti a Berlino est il riformismo di Mosca si unì al fermento tedesco, e pochi giorni più tardi Honecker, già malato, si ritirò. Al suo posto arrivò Egon Krenz, “un riformatore favorevole alla perestrojka”, si definiva. Un insegnante figlio di un sarto, la cui vita politica durò qualche giorno. Il Muro nel frattempo sembrava un malato – cavi, tubi, guardie – proteggeva un’area della Germania dall’altra, ma non bastava più a proteggere un progetto. Non sprigionava più rabbia, ma stanchezza. Dall’altra parte, la sua parete dell’ovest era ormai un’attrazione turistica, la città, seppur nel dolore, si era abituata, ma non appena Berlino occidentale vedeva che qualcuno dall’oriente era riuscito a fuggire, i cittadini si precipitavano ad aiutarlo.

 

Quando Mikhail Gorbaciov arrivò a Berlino est nel 1989, i tedeschi lo accolsero gridando: “Gorbi, salvaci!”

Tanto più che negli anni le fughe si facevano sempre più rocambolesche. E ogni fuga era un insulto all’orgoglio del partito, un’umiliazione. Ogni caso veniva sottoposto a indagine. Fuggivano i cittadini, ma anche i soldati, gli uomini e le donne, fuggivano i bambini. Qualcuno voleva la libertà, qualcuno la musica, qualcuno un paio di jeans. Ogni motivazione era valida per avere l’accesso a un mondo di curiosità e i funzionari del partito lo sapevano. Di anno in anno, più il muro cresceva, più i tedeschi inventavano modi per arrivare in occidente. La famiglia Strelzyk diventò famosa per il viaggio in mongolfiera, i fratelli Egbert fuggirono con un ultraleggero con una stella rossa sotto, qualcuno in surf fino alla Danimarca. Mikhail Gorbaciov portò una consapevolezza importante nella storia di Berlino est: i tedeschi adesso sapevano che se si fossero ribellati, i carri armati di Mosca non sarebbero arrivati a reprimere la protesta. E così avvenne, nella notte dell’incomprensione: il 9 novembre del 1989.

  

Quel giorno Günter Schabowski avrebbe avuto altro da fare, non era prevista una conferenza stampa. Era un importante membro del Comitato centrale del partito unico della Ddr e soltanto da cinque giorni ne era diventato il portavoce. Non esisteva questa carica, ma tutto si muoveva in fretta e Krez, colto dall’ansia riformatrice, cercò di apportare qualche innovazione. Schabowski era una di queste, e la sua funzione era parlare con la stampa estera dopo aver partecipato alle riunioni del Politbüro. Quel giorno però non aveva partecipato, si trascinò fino alla conferenza stampa dopo avere ricevuto una telefonata, incontrò Krenz, che gli spiegò che all’ordine del giorno c’era l’approvazione della libertà di viaggiare per i cittadini della Germania dell’est. Schabowski prese dalle mani di Krenz una cartellina e arrivò nella sala, dove lo attendevano i giornalisti. La conferenza stampa fu lunga e noiosa, qualcuno si addormentò, Schabowski si perdeva dietro ai nomi e ai numeri senza mai arrivare al dunque, forse non sapeva nemmeno se ci sarebbe stato un dunque.

  

Poi prende in mano l’insieme di fogli che Krenz gli aveva consegnato in corridoio e parla delle regole per gli spostamenti da est a ovest. Sempre distratto, sempre annoiato, nell’atmosfera assonnata della sala stampa. Riccardo Ehrman era inviato dell’Ansa a Berlino e sentendo parlare di permessi – mesi prima c’era stata la protesta all’ambasciata della Repubblica federale tedesca a Praga, in cui migliaia di cittadini dell’est si erano accampati per chiedere di potersi trasferire in occidente – chiede al portavoce qualche spiegazione in più. Schabowski non sapeva nient’altro, ma non poteva dirlo. “Avrei fatto la figura dello stupido”, ha ammesso diversi anni dopo. Le frontiere saranno aperte, dice il portavoce. “Sì – domanda, pragmatico, Ehrman o, secondo altri, Peter Brinkmann della Bild – ma quando?”. E qui, si compie la storia. Uno Schabowski sempre più infastidito, con una cartella di fogli e foglietti in mano, si mette gli occhiali, si tocca la testa, scorre i documenti e fa cadere il Muro: “Da quello che vedo, subito, immediatamente”. Sofort, unverzüglich. Tutti si svegliarono in sala stampa. Subito, immediatamente. I giornalisti gridano domande, Schabowski continua a guardare i fogli nell’attesa che parlino per lui. “Le nuove regole verranno applicate anche a Berlino?”, chiede Krzysztof Janowski di Voice of America. “Sì, sì”, risponde il portavoce. Non era vero. Schabowski avrebbe dovuto annunciare che i cittadini della Germania est avrebbero potuto chiedere dei permessi speciali e la notizia sarebbe dovuta rimanere segreta fino al giorno dopo.

   

Günter Schabowski annunciò la liberalizzazione dei permessi di viaggio per i cittadini della Germania dell’est. L’annuncio era segreto

La conferenza stampa fece il giro di tutte le case. I tedeschi iniziarono a uscire per curiosità, per vedere se fosse vero. Qualcuno in pigiama, qualcuno, un po’ più ambizioso, fece già i bagagli. Dieci, cento, mille, persone, poi una valanga. Tutti andavano a Bornholmer Strasse, dove il luogotenente Harald Jäger, al controllo passaporti, vede avvicinarsi una folla euforica, incontenibile, felice. Gli dicono dell’annuncio – lo ha annunciato Schabowski! – e Jäger prende la decisione di alzare la sbarra che divideva le due Germanie. Ognuno arrivava con un picconcino in mano, ognuno voleva scalfire il Muro, picchiarlo, era un atto simbolico, gli anni e gli strati di cemento lo avevano reso durissimo, ma ogni berlinese aveva le sue ragioni.

  

Günter Schabowski uscì dalla sala stampa, le sue affermazioni vennero subito smentite dal partito, ma era tardi, il Muro già non c’era più e un anno più tardi nemmeno la Ddr ci sarebbe più stata. Come la vita di tutta la Germania orientale anche quella del portavoce cambiò.

  

Era un giornalista e, qualche anno dopo, decise di fondare un quotidiano locale, lo Heimat-Nachrichten, ma nel 1997, assieme agli altri membri del partito, venne giudicato e condannato, ottenne la grazia nel 2000.

 

Schabowski, quel volto corrucciato che inciampa tra le pagine della cartellina che Krenz gli aveva dato poco prima, capitato lì per caso senza aver sentito quel che il Politbüro aveva deciso durante la riunione, ha poi scritto un’autobiografia, “Abbiamo sbagliato quasi tutto”, pubblicata per il ventennale della caduta del Muro con un titolo che sa di confessione. Nel libro si assume le responsabilità per le oppressioni, per il Muro, racconta la sua vita e quella della Germania dell’est, tutte e due vittime di tanta severità e di altrettanta ironia: “Tra le cose migliori (che la Ddr ci ha lasciato ndr) c’è il fatto che sia stata proprio la patria di Marx e di Engels a dare la prova che le loro teorie applicate alla società reale sono state un fiasco clamoroso. Insomma, è stato realizzato quel fenomeno che Karl Popper aveva sintetizzato così: ‘Cercando il paradiso abbiamo ricreato l’inferno sulla terra’”.

 

Quell’inferno sulla terra si dissolse. Sofort, unverzüglich. Subito, immediatamente, i tedeschi dell’est cercarono di recuperare le libertà, i piaceri, la vita che l’oppressione di un mondo chiuso non gli aveva permesso di conoscere. Il Muro venne buttato giù, quando già tremava da solo. Tutto si dissolse in fretta. In fretta era stata tenuta anche la riunione del Politbüro in cui venne discussa la modifica della legge sugli spostamenti. Se ne occupò Gerhard Lauter, anche lui di fretta. Il partito sapeva che per non sparire avrebbe dovuto riformarsi, aprirsi. Lauter preparò la bozza che finì nelle mani di Schabowski, le cui parole accelerarono un processo iniziato già dall’arrivo di Gorbaciov.

 

Nella sua autobiografia Schabowski denuncia la mentalità ristretta, la lentezza, e i soprusi della Germania comunista

Il Muro, quella catena alpina di cemento, era un confine fisico, che gli anni avevano reso ideale. Quando venne giù non tutti erano contenti, qualcuno aveva paura di andare avanti senza muri, di trovarsi, all’improvviso, a contatto con la libertà. Schabowski non la pensava così e nel libro in cui discorre con il giornalista Frank Sieren racconta quanto fosse ristretta la mentalità del partito, quanto la dedizione alla burocrazia bloccasse i processi decisionali, nessuno sviluppo era possibile. Racconta della distanza incolmabile tra chi comandava e i cittadini. E’ stato lui a rompere la Germania dell’est, con distrazione, con l’aria annoiata, con gli occhi incollati ai fogli di una bozza scritta di fretta, perché in fretta andava cambiato tutto. Subito Immediatamente.

 

Anche Schabowski, incastrato nella sala stampa, aveva fretta ormai di finire quella conferenza iniziata nel sonno e nello strascico della lunga burocrazia del partito. Prese le carte e iniziò a leggere ai giornalisti quello che c’era scritto e che sarebbe dovuto rimanere segreto. Il partito aveva chiuso la Germania dell’est dietro a un Muro perché non cambiasse mai, il resto del mondo non esisteva, nemmeno sulla mappa: se i cittadini di Berlino ovest avevano il disegno completo della città, le cartine geografiche diffuse a est mostravano Berlino est come capitale della Germania, ma il resto era uno spazio bianco. Non esisteva. Iniziò a esistere all’improvviso. Subito, immediatamente. Da due parole distratte, inventate, ma lette davvero. “Da quello che vedo qui – disse Schabowski pur non vedendo nulla sui fogli frettolosi – Sofort, unverzüglich”.

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