Il procuratore speciale Robert Mueller (Foto LaPresse)

Il Mogio-gate

Daniele Raineri

La deposizione di Mueller è giuridicamente seria ma è troppo moscia per lanciare una battaglia

Roma. Il procuratore speciale Robert Mueller aveva fatto capire in tutti i modi che una sua deposizione davanti alla Camera americana sarebbe stata molto riluttante e così è stato. Le sue risposte sono state il più brevi possibile, a volte di una sola parola, ha fatto rimandi continui al testo del rapporto di 448 pagine da lui consegnato a marzo – come se tutti lo avessero letto e lo conoscessero bene – e ha detto molti “I can’t get into that”, non posso rispondere su questo argomento. In breve: se i democratici insoddisfatti dal rapporto si aspettavano che questa deposizione a cui Mueller non poteva sottrarsi sarebbe diventata una testimonianza esplosiva e che le colpe di Trump sarebbero diventate evidenti a tutti, sono rimasti delusi. Una deposizione di questo tipo, così tecnica e senza ritmo e soprattutto senza uno slogan memorabile che possa rimanere appiccicato in testa non riesce a cambiare nulla. L’eccezione è stato lo scambio introduttivo con Adam Schiff, presidente della commissione Intelligence della Camera, molto secco e chiaro. Schiff ha fatto dire a Mueller che la Russia è intervenuta in modo pesantissimo per aiutare Trump, che la campagna di Trump ha accettato l’assistenza russa invece che denunciarla, che Trump cercava nel frattempo di fare un affare in Russia e che l’indagine non è stata “una caccia alle streghe” come ripete spesso il presidente. Trump, dice Schiff, è stato sleale con l’America. Disloyalty è la parola che rimarrà. Trump intanto guardava tutto in tv e twittava.

 

Il punto fondamentale tra le cose dette da Mueller è stata la risposta data a Ted Lieu, deputato democratico della California. Lieu ha detto: “Credo che una persona ragionevole che guardi a questi fatti concluderebbe che tutti e tre gli elementi del reato di ostruzione alla giustizia sono presenti. Quindi voglio chiedere, di nuovo, la ragione per cui lei non ha incriminato Donald Trump è perché c’è una linea guida in materia prodotta dall’ufficio di consulenza legale del dipartimento di Giustizia che dice che non è possibile incriminare un presidente in carica, corretto?”. “Corretto”, ha risposto Mueller. Dal punto di vista tecnico è una risposta molto interessante perché conferma che il rapporto Mueller non assolve Trump, si limita a descrivere fatti che sono reato – l’ostruzione di giustizia – e ad ammettere che un procuratore non può incriminare un presidente. Dal punto di vista del racconto che coinvolge o spaventa o eccita l’opinione degli americani e quindi degli elettori quel “corretto” pronunciato da Mueller vale zero. Non ha la capacità di spostare la lancetta delle idee. Poco dopo Mueller però si è rimangiato quel “corretto” e ha detto che la linea guida non c’entra, il fatto è che lui non ha la risposta definitiva sulla colpevolezza del presidente.

 

Mueller ha detto in modo inequivocabile che il presidente “was not exculpated” dal rapporto: non è stato assolto. E ha respinto lo slogan “No collusion! No obstruction!”, non c’è collusione! Non c’è ostruzione!, che Trump ha detto così tante volte da quando è uscito il rapporto.

 

I deputati repubblicani hanno usato tutto il tempo a loro disposizione per mettere in discussione la credibilità di Mueller, che pure ha un curriculum molto solido, e del suo rapporto, senza peraltro riuscirci. Così funziona il gioco delle parti. L’impressione è che Mueller non fosse per nulla turbato dalle domande dei repubblicani, ma molto più dall’obbligo di dover ripetere davanti alle telecamere quello che aveva già scritto nel rapporto dopo due anni di indagini.

 

Uno scambio interessante c’è stato con il deputato repubblicano Ken Buck, che lo ha accusato di “tirare tutto quello che aveva sotto mano contro il muro per vedere se restava appiccicato”. “Non sono d’accordo per nulla con questa descrizione”, ha risposto secco Mueller. Poi Buck ha chiesto se Mueller potrebbe incriminare Trump per ostruzione alla giustizia quando non sarà più presidente. Mueller ha risposto di sì, ma ci sono due scuole a proposito di questa risposta. La scuola colpevolista sostiene che Mueller intendesse che sì, ha gli elementi per incriminare Trump e quindi sarà possibile incriminarlo quando non sarà più alla Casa Bianca. La scuola garantista dice che Mueller ha dato soltanto una risposta tecnica per dire una cosa ovvia: ammesso e non concesso che Trump sia incriminabile, lo sarà soltanto a partire dal momento in cui non sarà più presidente. Ecco: mentre ai comizi di Trump la folla scandisce “Send her back!” contro una deputata somala naturalizzata americana, dall’altra parte i democratici hanno ottenuto da Mueller un mezzo “correct” e uno “yes”. Non scalfiranno la campagna del presidente Trump per essere rieletto.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)