Donald Trump (foto LaPresse)

Gli americani studiano ancora come si fa opposizione al Populista

Daniele Raineri

Gridare “motherfucker!” oppure no? La voglia di impeachment dev’essere gentile e sussurrata. E invece Tlaib

New York. Il Partito democratico americano ha vinto in larghezza le elezioni di metà mandato a novembre e molti suoi pesi massimi – vedi Joe Biden, come si spiega qui a fianco – si preparano ad annunciare l’inizio della campagna presidenziale contro Trump, ma è squassato da un dibattito interno che ricorda molto quello che succede in Italia. Come ci si comporta all’opposizione, quando devi fare opposizione contro il Mostro Populista che nessuno in tempi recenti aveva dovuto affrontare? Devi essere più aggressivo e batterlo in ferocia prima che ti mangi lui? Oppure devi essere il più calmo sulla scena, il più rassicurante per gli elettori e abbatterlo con la forza della ragione?

    

Giovedì sera a Washington una delle nuove elette, Rashida Tlaib, ha detto a un party: “Mio figlio mi ha detto, hai visto mamma, sei tu che hai vinto, i bulli non vincono. Io gli ho detto: no baby che non vincono, perché adesso andiamo là [al Congresso] e facciamo l’impeachment a quel motherfucker”. Gli astanti hanno esultato, ma il video di lei che pronuncia la frase “we’re gonna go in there and we’re gonna impeach the motherfucker” è uscito e le televisioni lo hanno mandato in onda a ripetizione.

 

  

Il giorno dopo i democratici erano assai meno esultanti, anzi erano “lividi” come ha titolato il sito Politico che è specializzato nel seguire questo genere di news. I media avevano appena finito di dipingere l’arrivo dei nuovi eletti dem al Congresso come un’invasione pacifica e colorata di donne contro il grigio monocolore degli eletti repubblicani, in maggioranza uomini, e adesso già al secondo giorno quel clima di vittoria è stato spazzato via. Il Partito democratico aveva detto ai suoi di calcare molto su argomenti concreti, come la sanità, invece è stato costretto a cominciare sulla difensiva perché i commentatori repubblicani hanno aperto il fuoco. Ecco la sola cosa che avete in mente, volete l’impeachment del presidente Trump anche se l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller non è finita e il suo rapporto dev’essere ancora consegnato.

 

Molti hanno parlato di “presidential harassment”, molestie al presidente, altri hanno sottolineato che la Tlaib è musulmana. Il capo della minoranza repubblicana al Congresso, Kevin McCarthy, ha improvvisato una conferenza stampa fuori dall’Aula per dire: “Se questo è quello che vogliono, come facciamo a lavorarci assieme?”. Il senatore democratico Joe Manchin è andato a Fox News per chiedere scusa “a tutti gli americani per il linguaggio orribile che hanno ascoltato”. Sui social è cominciata la discussione: Tlaib deve chiedere scusa sì o no? La linea che prevale è che chiedere scusa a Trump per avere usato parole offensive è da pazzi, perché è lui il primo a usarle, ma queste sono considerazioni a caldo che non danno alcuna certezza su quello che poi succederà nelle urne nel 2020. I trumpiani si dicono oltraggiati, ma danno anche l’idea che desidererebbero un dibattito del genere ogni giorno e per sempre.

   

I leader democratici ricordano quello che è successo alla fine di settembre, quando pensavano di avere in mano una carta formidabile contro Trump e trasformarono la conferma della nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte suprema in un piccolo show trattino processo per tentato stupro che fu seguitissimo dai media e dal paese. Invece che imprimere più slancio alla campagna elettorale dei democratici per il 7 novembre, le accuse durissime contro Kavanaugh e la sua conferma finale ebbero invece secondo i sondaggi l’effetto di svegliare e compattare la base repubblicana fedele a Trump. E questo spiega perché in questi giorni hanno scelto di minimizzare l’uscita di Tlaib e non di difenderla. Nancy Pelosi, la leader dei democratici al Congresso, ha detto: “Non mi piace quel linguaggio e non lo uso, ma non mi occupo di censura e non sono qui per stabilire gli standard di linguaggio dei miei colleghi”. Maureen Dowd, editorialista del New York Times che non vede l’ora di raccontare la caduta di Trump, questa settimana nel finale del suo pezzo metteva in guardia i democratici: “Lasciate che sia lui quello volgare e cattivo”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)