C'è un'alleanza anglo-americana di pensatoi di sinistra per creare un'alternativa al neoliberalismo
È in corso uno spogliarello delle teorie economiche per tornare alle domande di base, con un sapore che sa di nostalgia. Le contaminazioni atlantiche e il saggio sulla bocca di tutti
Roma. Se sei di sinistra, devi aver letto “People get ready”, il manuale scritto da Christine Berry e Joe Guinan e pubblicato qualche mese fa che vuole essere la versione “leftie” del Ridley Plan, un documento che fu pubblicato alla fine degli anni Settanta da un parlamentare conservatore inglese, Nicholas Ridley, e che delineava in modo molto chiaro e dettagliato come Margaret Thatcher avrebbe potuto e dovuto spezzare i sindacati e privatizzare le aziende di stato. Nel gran gusto retrò che caratterizza oggi la nostra politica – la nostalgia per i bei tempi che furono, anche se non erano poi così belli – il thatcherismo va fortissimo negli ambienti di sinistra, ovviamente non per i suoi contenuti ma per la sua forma e per gli strumenti allora utilizzati per mettere a punto l’ultima grande rivoluzione economico-politica del secolo scorso (sì, poi c’è stata un’altra rivoluzione, quella del riformismo liberale blariano-clintoniano, ma essendo un affare di famiglia, una frattura domestica che non si è mai rimarginata, è più doloroso farvi riferimento, si finirebbe per litigare: meglio ignorarla).
Nel Regno Unito “people get ready”, dicono i due economisti autori del saggio-da-leggere, la gente si sta preparando per il cambiamento, che è una revisione delle idee che hanno scandito gli ultimi quarant’anni di storia anglosassone (e quindi occidentale), o forse più semplicemente un ritorno al passato. “Vogliamo spogliare l’economia fino a farla tornare ai suoi elementi essenziali”, ha detto la Berry al Guardian, con il tono battagliero che ormai fa parte della sua immagine – è considerata “l’attivista” di un nuovo network di esperti e studiosi che vuole riscrivere il futuro economico-sociale delle sinistre occidentali. Nello spogliarello, le domande da fare sono le più banali: di chi sono le risorse? Chi ha il potere nelle aziende? Come si redistribuisce il potere economico e non soltanto quello politico? In termini accademici questo approccio è noto come “economia democratica” e vuole essere la risposta alla crisi dell’offerta neoliberale degli anni Novanta e della prima decade degli anni Duemila: è colorata di un rosso acceso. Molti centri studi si sono adeguati, e stanno cercando di reindirizzare documenti e visioni per rispondere a questo bisogno di politiche di sinistra, al radicalismo – il socialismo! – diventato mainstream nei discorsi e nelle bolle social che però non ha ancora una forma compiuta e funzionale né un progetto concreto.
Nel Regno Unito sono nati negli ultimi anni molti think tank nuovi, e alcuni storici – come l’Institute for Public Policy Research, l’Ippr – si stanno riposizionando: erano la voce del New Labour e del liberalismo di Tony Blair, oggi si concentrano sulla “costruzione del cambiamento sistemico”, che ha molto più a che fare con le comunità e con le realtà socio-economiche locali. Jon Guinan, il coautore del saggio-da-leggere, ha pubblicato in questi giorni un paper per l’Ippr che vuole strappare l’economia dal monopolio della tecnocrazia – gli esperti nei loro studi e salotti lontani dalle esigenze degli elettori – per riportarla in mezzo alla gente: l’economia democratica, appunto. In questo modo, sostengono questi nuovi pensatori, anche la democrazia tanto bistrattata ne uscirà migliore: rabbia e paura saranno sostituite dal coinvolgimento, dal cambiamento in prima persona, dagli effetti concreti del proprio attivismo, e così il distacco tra élite e popolo potrà finalmente essere colmato. L’ambizione consiste nel trasformare la relazione tra capitalismo e stato, tra lavoratori e datori di lavoro, tra l’economia locale e quella globale, tra chi non ha asset economici e chi invece ne ha in abbondanza. Sul ruolo dello stato nella realizzazione di tale ambizione ci sono molte divergenze anche all’interno di questa famiglia di pensatori che ha la pretesa di mostrarsi molto compatta: c’è chi auspica una grande ingerenza statale, come elemento di stabilizzazione imprescindibile (le nazionalizzazioni di Jeremy Corbyn, leader del Labour, per dire) e chi invece prevede un’iniziativa guidata dallo stato ma non un controllo totale dello stato. Al momento l’ambiguità regge ancora, perché siamo nella fase del “people get ready”, ci si sta preparando.
L’ispirazione per molti ricercatori britannici è venuta dagli Stati Uniti, in particolare da quello che è diventato famoso come il “modello Cleveland”. Nel 2008, il centro di ricerca Democracy Collaborative andò a Cleveland, in Ohio, che da decenni perdeva residenti e posti di lavoro, per applicare la strategia di “costruzione del benessere nelle comunità”, che si può sintetizzare in “go local” (tornare nelle periferie), cioè nella ricostruzione del tessuto economico e sociale a livello locale. Democracy Collaborative contribuì a creare una compagnia di pannelli solari, una lavanderia industriale e una fattoria per coltivazioni idroponiche: queste tre aziende erano di proprietà dei dipendenti e parte dei profitti andavano a una holding che era una cooperativa cittadina. Nel 2017, quando l’America iniziava a riprendersi dallo choc elettorale dell’anno precedente e scopriva da vicino gli effetti del populismo trumpiano, un esponente di Democracy Collaborative pubblicò i dati relativi all’esperimento di Cleveland, ne sancì il successo e disse: “Fermiamo la fuoriuscita di soldi dalla nostra comunità”. A populismo populismo e mezzo. Quell’esperto si chiama Ted Howard ed è stato invitato spesso nel Regno Unito per parlare a incontri organizzati dai think tank che stanno ricostruendo l’offerta socio-economica della sinistra. Nella sinistra americana è tornata la convinzione che il Regno Unito possa essere un laboratorio utile e dinamico per le proprie idee, come accadeva negli anni Settanta: le contaminazioni e contatti sono sempre di più, il via vai di esperti che condividono idee ed esperienze è molto intenso. A questo punto c’è un’ulteriore specificazione da fare: nel mondo di Jeremy Corbyn, molto radicale e nazionalizzatore, c’è anche John McDonnell, cancelliere dello Scacchiere ombra, che è considerato dai pensatori della nuova sinistra molto meno radicale del suo capo al punto che molti politologi pensano che, quando la gente sarà pronta alla svolta, ci sarà una resa dei conti tra i due. Si vedrà, ma certamente McDonnell ha avuto un ruolo ben più rilevante per la costruzione di questo supporto ideologico rispetto a Corbyn, intrattenendo rapporti molto stretti con gli americani che, dal punto di vista organizzativo e politico, sono più avanti in questo percorso di emancipazione di idee che erano state sepolte con la Terza Via inaugurata negli anni Novanta.
Dal legame tra McDonnell e Ted Howard è nato l’esperimento di Preston, la rivisitazione inglese del “modello Cleveland”. Preston è nel Lancashire, è una ex cittadina industriale guidata dal Labour che per molti anni è stata a guardare spopolamento e assenza di opportunità. Grazie all’ispirazione americana, il centro di Preston oggi è diventato molto vivace, gli artisti hanno occupato palazzi comunali abbandonati e i containers delle navi sono stati trasformati in pub e bar, mentre l’ospedale e l’università locali sono stati rilanciati, attirando professionisti e studenti qualificati. Il modello Preston è diventato il caso di successo cui fanno riferimento ora i centri studi di sinistra a caccia di progetti concreti: il capitalismo che funziona per la gente, grazie all’iniziativa dei governi locali (se si fanno ricerche sulla “Corbynomics” viene sempre fuori Preston).
Qualche settimana fa l’Economist ha fatto un’inchiesta sui pensatoi di questa nuova sinistra, che sono sempre di più – la data di nascita è il 2015, quando Corbyn è stato nominato leader del Labour – e sono a caccia non soltanto di idee e ispirazioni, ma anche di fondi. Ha scoperto che Democracy Collaborative è in gran parte finanziato dalla NoVo Foundation, che vive grazie alla generosità di Warren Buffett (suo figlio Peter la gestisce). Questo vale anche per altri think tank britannici che ottengono finanziamenti da tycoon liberal americani. “Detto in poche parole – ha scritto l’Economist – i semi del socialismo britannico moderno sono forniti indirettamente dai padrini del capitalismo americano”. Andy Beckett è andato a Preston per il Guardian e ha chiesto a un consigliere locale: ma qui sovvertite il capitalismo o lo salvate? La risposta è stata di uno che si sta preparando a una rivoluzione che non sia di opposizione ma di governo: “A livello nazionale il Labour ha preso le distanze dalla dicotomia pro/anti business. Quel che conta è creare valore sociale”. Non è molto vero, ma “people get ready”.
L'editoriale dell'elefantino