Le mie Brexit
Mille e più giorni a studiare dettagli infimi, a fissare panche verdi, porte chiuse e hamburger bruciati. La salvezza è l’occhio carezzevole di una brexitologa scalza e la canzone di Coez che celebra “l’isola dentro”
Ho trascorso gli ultimi tre mesi a fissare alternativamente la porta di Downing Street e le panche verdi di Westminster, a seconda di chi aveva la regia – si fa per dire – del divorzio del secolo tra il Regno Unito e l’Unione europea. Non ho fatto altro, non mi sono distratta, non sono stata altrove. Ho ricevuto soltanto telefonate monotematiche: ma la Brexit? I miei compagni di stanza, stremati da queste conversazioni sempre uguali e con lo stesso, ineluttabile finale (“tutto è possibile”), mi hanno suggerito di mettere su un banchetto come quello di Lucy van Pelt e di monetizzare il mio sostegno brexitologo. Pensavo che fosse un modo per rincuorarmi, hai visto che tanto studio non è andato perso?, invece loro intendevano dire: sfrutta questi due giorni in cui la Brexit interessa a qualcuno, prima che sia tutto finito.
La proroga flessibile, le europee, l’incidente del no deal, il secondo referendum: ci vuole un banchetto come quello di Lucy van Pelt
Per i miei figli la Brexit è una presenza, un parente che si è piazzato in casa e non se ne va più. Dov’è la mamma? “Con la Brexit”. Perché cenate alle dieci di sera? “Aspettiamo la Brexit”. È bruciata la cena? “La mamma è corsa dalla Brexit e ha lasciato il fuoco accesso sotto gli hamburger”. Sempre più spesso i miei figli pensano che la Brexit sia una scusa: a ogni questua rispondo che “stanno votando la Brexit”, e dopo che hanno chiesto un paio di volte “ma non si è votato nel 2016?”, si sono convinti che io uso la Brexit per non stare con loro. Preferisci la Brexit a me, ha urlato mio figlio l’altra sera, quando gli ho vietato di giocare a Fortnite per il resto della sua vita. Ti fa male al cervello, ci sono gli psicologi che studiano la sindrome da Fortnite, uno è andato a sparare in una moschea neozelandese preparando l’attacco su Fortnite, gli ho detto. È arrivata la sorella a difenderlo: guarda mamma che a te la Brexit fa lo stesso effetto.
La Brexit mette a rischio la salute mentale, ha scritto il Guardian un paio di giorni fa, citando studi e rilevazioni sugli inglesi e i loro supplizi psicologici, ansia, depressione, incertezza. Le diagnosi c’erano già prima, non ci si ammala di Brexit, ma questo divorzio impossibile amplifica ogni sintomo: agita, imbarazza, deprime. Che figuraccia mondiale.
Il popolo britannico vorrebbe un po’ nascondersi e un po’ esporsi, si vergognano ma sono pur sempre gli inglesi, diversi da tutti, diversi dagli europei soprattutto. La Brexit è causa di tutti i mali e al tempo stesso alibi globale, sintesi esatta di una schizofrenia politica che sta portando al collasso il glorioso sistema istituzionale britannico. Il ministro degli Esteri inglese non è andato al settantesimo compleanno della Nato – la Nato! la Nato che non ci sarebbe nemmeno senza la tigna britannica! – perché c’è la Brexit: la scusa è peggio della mancata visita, tradisce quell’incertezza colossale che è diventata la linea politica di un intero regno.
La Gran Bretagna è sospesa tra il senso di umiliazione, ci ridono dietro tutti, e la presunzione di essere comunque eccezionali
La Gran Bretagna è un paese sospeso tra il senso di umiliazione, ci ridono dietro tutti, e la presunzione di essere comunque eccezionali, isola e isolani, ex impero e dominatori – l’epica dell’identità britannica. Ecco, questa presunta diversità che è anche alla base della Brexit – noi inglesi non siamo come voi, non possiamo stare insieme – è insopportabile. Persino per me che amo gli inglesi di quell’amore profondo e inscalfibile che capita, se capita, una volta nella vita. Di che diversità state parlando, di grazia? L’unica differenza tra me e gli inglesi è che, come dice Emmanuel Macron, il mangiarane in chief, se siamo in questo caos e i nervi non reggono più, la colpa è loro, non mia. Questo romanzo del rimorso – se è rimorso, bisognerebbe che ce lo facessero sapere, una buona volta – è ancora più avvilente del ricordo della notte elettorale di quel 23 giugno 2016, quando ignari e superficiali e inconsapevoli come eravamo tutti, ci guardavamo spaesati e persino un po’ elettrizzati: l’hanno fatto per davvero, diavoli di inglesi. Quell’euforia sciagurata, un misto di disperazione e di fiducia (perché avevamo, avevo, una fiducia granitica nelle scelte e nella fantasia britanniche), è colpa degli inglesi: ci avevate fatto credere che lasciare la famiglia, ventisette mogli arcigne e imbiancate, fosse una passeggiata, anzi, di più, una prospettiva per il futuro, un piano di vita.
I fuggitivi dicono: non siamo più sicuri di niente. Aspettano, rimandano, rivotano senza mai votare nulla di nuovo
Era già iniziata l’èra dell’incompetenza, come la chiama Tom Nichols, e non ce ne eravamo accorti. Soprattutto non ci eravamo accorti che l’Inghilterra intera, lo spettro costituzionale completo, sarebbe diventata la centrale di questa incompetenza. Non si sbatte la porta se non si ha un amante da cui correre a rifugiarsi, lo sanno tutti. Come gli inglesi abbiano potuto credere che questa legge naturale potesse non valere per loro, in nome di questa presunta diversità, resta un mistero. Ma oggi, come in tutti i divorzi controversi, i fuggitivi dicono: non siamo più sicuri. E aspettano, diavoli di inglesi, aspettano, rimandano, rivotano senza mai votare nulla di nuovo, ogni giorno sembra quello decisivo e invece ci ritroviamo ogni sera, ogni notte (perché che gusto c’è a votare in Parlamento alle nove della mattina: no, bisogna fare sempre le nottate), con un enorme, inutile, paradossale “vedremo”. Volete rimanere, volete andare? Vedremo. Quando? Il 12 aprile, il 22 maggio, il 30 giugno, brexit days che si sprecano, come petali di una margherita. Mi ami o non mi ami? Non lo so, vedremo.
Nessuno mi restituirà questi mille e più giorni da “brexitologa”, un termine brutto per un mestiere orrendo. Al settimo documento sulle migrazioni dei merluzzi, ho iniziato a sentire il dolore: lo ricordo perfettamente, è stato quando ho gugolato “eglefino”. Volevo capire la differenza tra un merluzzo e un eglefino per individuare il loro habitat naturale e le loro migrazioni – credo che anche le correnti del mare del Nord cambieranno con la Brexit. Dopo che ho confrontato immagini di pesci identici e in un pub ho chiesto se il fish&chip che stavo mangiando fosse merluzzo o eglefino, ho scoperto che gli inglesi non pescano né merluzzi né eglefini, o almeno non ne pescano a sufficienza per il loro fabbisogno: hanno bisogno di noi anche per preparare il loro piatto nazionale. L’83 per cento dei merluzzi e il 58 per cento degli eglefini sono importati. Sapete cosa pescano gli inglesi? Aringhe. Saporitissime aringhe che non mangiano, roba da scandinavi, e che esportano – il 93 per cento: 93 – ai norvegesi e agli olandesi soprattutto. Ricorderete la “battaglia navale” sul Tamigi, prima del voto al referendum sulla Brexit: la flottiglia di Nigel Farage, brexiteer falco e capo delle fantasie brexitare più irreali, che sventolava pesci morti, e quella di Bob Geldof, che sventolava cartelli con scritto “in”, rimaniamo in Europa. I due si insultarono, tu sei il nemico dei pescatori, no il nemico sei tu, e megafoni e canzoni, e dati sparati a caso tanto nessuno capiva nulla (sul Tamigi, che è un fiume, e a Londra cosa volete mai che si sappia di pesci di mare?). Però questo settore è importante, la Brexit avrà un impatto notevole anche sui pesci, dicevano tutti, e così mi sono messa a studiare non soltanto i merluzzi e i pescatori, ma pure il processo dell’industria della pesca, 24 mila posti di lavoro, un giro d’affari da 1,4 miliardi di sterline. Lo 0,12 per cento dell’intera economia inglese, lo 0,1 per cento della forza lavoro del paese: niente. Un altro riflesso della presunta diversità degli inglesi.
Ho sentito male ma non mi sono fermata. I gusti e i sogni degli inglesi sono diversi, rispettiamo questo eccezionalismo. Ne potrei fare tanti di esempi di questa mia solerzia sprecata, mille direi, uno per ogni giorno di Brexit. Nel disinteresse generale perché la Brexit occupa la mente soltanto dei brexitologi, la gente normale – anche gli inglesi normali – ha di meglio da fare. Avrei dovuto seguirlo, questo istinto di sopravvivenza, avrei dovuto continuare a mangiare eglefini scambiandoli per merluzzi, non avrei dovuto buttare via i soldi in quel poster che ho appeso in cucina con tutti i pesci dei mari del nord. Avrei dovuto seguire la regola dei grandi amori: non controllare, non chiedere, non cercare verità che non sapresti comunque accettare. Ma la salute mentale, come l’amore, si perde così: senza accorgersene.
Un intero continente è da settimane prigioniero di ogni sussulto del Parlamento e del governo inglese. Chi aveva conservato un certo distacco – non i brexitologi, che la lucidità l’hanno, l’abbiamo, perduta con molto anticipo rispetto a tutti gli altri, prima di noi soltanto Theresa May – è infine stato travolto: i dettagli sono complicati ma il tempo che corre è chiarissimo, lo vedi, è già estate, e tra tutte le incertezze c’era la certezza di una data, il 29 marzo 2019, il re dei Brexit days, il giorno in cui il Regno si sarebbe chiuso la porta dietro di sé. Poi la scadenza è passata. E pure se gli inglesi ci sbattono in faccia il loro insultante “vedremo”, aspettiamo il gran finale, trepidanti. L’Unione europea ha un numero verde che si può chiamare per avere informazioni di ogni tipo: al call center parlano tutte le lingue dell’Ue, sono molto gentili, cercano di dare sempre una risposta. Nelle ultime settimane molti chiamano per sapere della Brexit. Sarò in Germania il 12 aprile con il cane, se c’è la Brexit posso rientrare normalmente? Se mi sposto in Spagna adesso, posso prendere la cittadinanza prima dell’uscita del Regno dall’Ue? Cose così. E al call center – ha raccontato Politico – traducono le dichiarazioni europee pertinenti, cioè non rispondono, non per incompetenza loro, ma perché nessuno lo sa, come va a finire. La settimana prossima c’è un’altra scadenza, il vertice europeo, la possibilità di un non accordo è ancora presente – è un incidente: può succedere – ma anche quella di una proroga lunga, corta, flessibile, anche quella di un secondo referendum o di un’elezione generale, anche quella della revoca di tutto il procedimento Brexit. Anche il colmo è possibile: il Regno Unito deve prepararsi a partecipare alle elezioni europee del 26 maggio. I fuggitivi saranno ripresi per le orecchie e portati a casa, e hanno già il broncio. Ma io spero che “Led by Donkeys”, governati da asini, diventi un partito: quattro padri che non vogliono mostrarsi troppo si sono incontrati in un pub e hanno concepito una campagna pubblicitaria geniale. In molte città sono comparsi cartelloni con le dichiarazioni dei brexiteer dal 2016 a oggi, quelli che la facevano facile, quelli che la Brexit ci libererà dalla dittatura europea, quelli che Brexit means Brexit e invece non vuol dire niente. Da quando c’è “Led by Donkeys” ho smesso di sentire il dolore dell’eglefino.
Il documentario “The Brexit Storm” di Laura Kuenssberg tira fuori il cuore spezzato della Brexit senza scivolare nelle guerre culturali
L’ultima stagione della Brexit va verso la consapevolezza: l’eccezionalismo che gli inglesi ci hanno sbattuto in faccia tanto a lungo forse così eccezionale non è. Pensavano che l’amore fosse finito, hanno fatto una scorribanda fuori dall’Unione che non si è rivelata così eccitante, e forse hanno capito che è meglio tornare a casa. Laura Kuenssberg, la “Brexit guru” della Bbc, come è stata definita la scorsa settimana in una splendida intervista sul Sunday Times, ha girato un documentario – “The Brexit Storm” – che è andato in onda lunedì. È la storia della Brexit raccontata da una brexitologa, che corre scalza per la residenza dei Chequers e si infila una giacca quando deve andare in onda (la giacca è la preoccupazione più grande di tutte, dice). La sua ricostruzione ha un’umanità che finora non era mai venuta fuori, perché la Brexit è da sempre rappresentata secondo la logica del potere e del cinismo. L’occhio della Kuenssberg invece è una carezza: non parla mai di “guerre culturali”, esclude l’interpretazione binaria della politica e della vita, tira fuori il cuore spezzato della Brexit. Non è una storia felice, questa, e la Kuenssberg non mette il trucco a nessuno, ma mentre racconta il fallimento della leadership britannica, tutta intera, dà una senso agli errori, alle sorprese, alle giravolte, alla testardaggine, persino a questo tremendo “vedremo” che continua ad arrivare da Londra.
L’occhio della Kuenssberg cura il mal di Brexit, è salvifico e liberatorio. Ho iniziato a pensare a quel che verrà dopo la Brexit, a cosa nascerà dalle macerie, ai politici da salvare e a quelli che emergeranno da qui in avanti. Ho pensato che di tutte le Brexit che ho vissuto, questa è la migliore, perché se tutto è possibile anche ripensarci lo è, e come dice la Kuenssberg di Brexit non si muore. “Gratis”, una canzone dell’ultimo album di Coez, è l’inno di questa nuova consapevolezza, l’ultima dichiarazione d’amore, contro i “vedremo”, contro gli hamburger bruciati, contro i pesci dei mari del nord. Forse metto la scritta sul mio banchetto da Lucy: “Sto perso, sì. Ritorno a nuoto, se resti qui mi addormento, ma con un’isola dentro”.
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