Roma. Billy Hardie viene da Grimsby, nel Lincolnshire, un tempo città di pescatori che ha provato a riciclarsi nell’industria dell’eolico; ha 72 anni, il padre era pescatore, il nonno pure era pescatore. In passato ha votato per il Labour e per i Toryi. A un certo punto è entrato nell’Ukip di Nigel Farage. Non per i migranti, visto che a Grimsby non ce ne sono, ma contro l’Unione europea, che non avrebbe fatto abbastanza per difendere i pescatori e anche perché, dice, il Labour ha fallito. Simon Stevens, amministratore delegato del National Health Service, poco più che cinquantenne, del Labour, spiega che il voto a favore della Brexit si giustifica parzialmente con il desiderio di migliorare il finanziamento del servizio sanitario pubblico. Ma la truffa maggiore inflitta dai dirigenti politici favorevoli alla Brexit al popolo britannico va rintracciata nello slogan secondo il quale lasciare l’Unione europea libererebbe 350 milioni di sterline alla settimana da usare per la sanità pubblica.
Il problema, ha detto Stevens, è che per colpa della Brexit la sanità ne risentirà molto, al punto che potrebbe non esserci più un sistema sanitario. Vaglielo a spiegare però a quelli che hanno creduto alla colossale fake news dei brexiteers. Quello che è effettivamente vero, però, è che l’NHS per far fronte alle richieste crescenti ha avuto bisogno di più fondi; fra il 2011 e il 2018 la popolazione dell’Inghilterra è cresciuta del 6 per cento e il numero di persone che sono state ricoverate per un’emergenza è salito del 15 per cento. Nel 2018, il governo ha annunciato però l’aumento del budget per il sistema sanitario nazionale del 3,4 per cento ogni anno fino al 2023/2024, un incremento di 394 milioni di sterline alla settimana, molto più insomma dei famosi 350 milioni. Peccato che quei soldi sarebbero dovuti saltare fuori indipendentemente dalla Brexit, visto il trend demografico e che per gli esperti anche con quei 394 milioni il servizio sanitario resta sottofinanziato.
Nel suo ultimo libro, appena uscito in Inghilterra, John Meek ci porta nei luoghi del Leave, lontano dalla bolla londinese del Remain
Quelle di Hardie e Stevens sono solo un paio delle tante storie raccontate da James Meek, giornalista e scrittore, nel suo ultimo libro “Dreams of leaving and remaining”, pubblicato qualche giorno fa dalla casa editrice Verso. Meek, che nel libro si autodenuncia subito come un remainer, ha scritto un reportage dai luoghi della Brexit per raccontare come è stato venduto il voto sull’uscita dall’Unione europea all’elettorato: come un momento alla San Giorgio, un evento singolo, immediato, perfetto, la spada che trafigge il cuore del drago e “pone fine alle sofferenze di tutte le brave persone”. Il mito aiuta a capire come i sostenitori del leave siano stati abili nel costruire una leggenda sulla Brexit, l’Unione europea nei panni del drago che viene uccisa dal voto del popolo-San Giorgio. Gli avversari della Brexit, invece, non ci sono riusciti, non hanno offerto all’opinione pubblica un analogo, potente mito, attorno al quale coagulare l’attenzione. Meek, a lungo reporter di esteri, non poteva farlo da dietro una scrivania (vecchio male del giornalismo d’oggi); per questo è partito da Grimsby, dove “il pesce era il re” e dove ha incontrato persone che hanno visto messi a dura prova i loro mezzi di sussistenza a causa, anche, della globalizzazione. Eppure, non è stata la famigerata Unione europea a impoverire i pescatori inglesi, che invece sono sotto scacco della Associated British Ports, compagnia che di britannico non ha nulla (solo il 10 per cento è accuratamente british). Non sono state le politiche dell’Ue a svendere un pezzo consistente di Gran Bretagna agli stati esteri, come invece una parte della popolazione potrebbe pensare. Ma nell’epoca dei sentimenti che prevalgono sulla razionalità questo è poco importante. L’importante è che esista il mito, come quello di San Giorgio, e che ci sia un drago da abbattere. Anche quando il drago è un altro oppure è diverso da quello immaginato. Lo sanno bene a Norfolk, contea dell’Inghilterra orientale e terra di agricoltori, dove Meek ha incontrato i propugnatori della teoria del “riprendiamoci il controllo” (il caro vecchio “padroni a casa nostra”) che non vedono l’ora di uscire dall’Ue, nonostante non siano mai stati così bene proprio grazie ai fondi di Bruxelles.
Un colpo secco e preciso: ecco la storia del divorzio secondo i brexiteers. Poi gli effetti non sono stati come se li aspettavano
Leggere il libro di Meek dimostra perché la linea di frattura fra centro e periferia sia essenziale a capire il mondo globalizzato e al contempo iperlocale, nel quale non c’è più distinzione fra percezione e realtà e dove i buoni sembrano stare tutti nelle periferie e i cattivi tutti nei centri storici. Volendo, si potrebbe pure ribaltare la prospettiva di chi oggi, tra i progressisti, si cosparge il capo per non aver frequentato abbastanza campagne, sottoproletariato urbano e periferie e dire: ok, ripartire dalle periferie, ma questo significa trascurare la Ztl o, fuor di metafora, la City londinese? In un’intervista alla Los Angeles Review of Books, Meek ha spiegato di aver assistito nei suoi viaggi, molto chiaramente, a una enorme disconnessione “tra l’idea della gente di che potere ci fosse in città e la sua effettiva esistenza. Per me, la realtà era che quel potere avesse lasciato la città ma non se ne fosse andato in Europa”. Casomai, appunto, il potere che la gente immaginava di detenere ha preso altre vie, disarticolato e disintermediato nell’epoca della società globalizzata. Ci sono almeno due possibili risposte a una globalizzazione feroce; una è quella di far ricorso al mito di San Giorgio, appunto, e presentare l’uscita dall’Unione europea come un evento risolutore, la panacea di tutti i mali. L’altra soluzione è far ricorso, dice Meek, al mito di Robin Hood – più un processo che un singolo evento alla San Giorgio – cioè alla redistribuzione del denaro attraverso una tassazione giusta. La sfida di chi si oppone ai populisti è rispondere sia alle esigenze di chi si vede aggredito dalla globalizzazione sia a quelle di chi vuole muoversi nel mercato libero (magari non per disperazione, ma per volontà).
David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.