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Nella piazza del People's vote si è sognato sulle “crepe” della Brexit

Luciana Grosso

I volti della piazza, le speranze, l’idea che ignorare un milione di persone non è democratico. Ora molto è nelle mani di Corbyn, che alla marcia non si è presentato

Londra. A due giorni (che nell’orizzonte temporale di Brexit sono un’eternità) dalla marcia di Londra, l’ipotesi di un secondo referendum che confermi o annulli Brexit è esattamente dov’era prima: per aria. Al massimo, in leggerissima ascesa: un po’ per meriti suoi, perché “Too big to get ignored” come ha titolato oggi il Guardian, un po’ per demeriti altrui, perché della Brexit ancora non si trova il bandolo e, allora, ributtare la palla nel campo degli elettori potrebbe essere una soluzione funzionale.

    

Nonostante il vigore della mozione per il People’s Vote, nonostante i 5 milioni e passa di firme perché il Parlamento discuta della revoca dell’articolo 50, nonostante la prova muscolare della marcia di Sabato, l’ipotesi di votare di nuovo non è, e non è mai stata davvero, sul piatto: sarebbe troppo pericoloso per la credibilità delle istituzioni e della democrazia inglese, soprattutto nel caso (auspicabile e a questo punto anche piuttosto probabile) che cancelli la Brexit. Inoltre la richiesta di un nuovo voto dovrebbe passare per il Parlamento e, a oggi, a Westminster, i voti non ci sono (del resto, santo cielo, per cosa ci sono?).

    

Eppure qualcosa si muove, non tanto perché in Parlamento Lib-Dem e Indipendenti hanno fatto calendarizzare, di nuovo, una richiesta di nuovo voto sulla Brexit, ma perché la marcia ha fatto impressione. Labour e Tory sanno che, prima o poi, quei manifestanti voteranno di nuovo e che difficilmente lo faranno per chi non hanno degnato di uno sguardo la loro protesta. Così, nelle ultime ore ci sono state delle microaperture all’ipotesi di voto. “Crepe” le hanno chiamate dal quartier generale di People’s Vote, usando una definizione assai azzeccata.

   

Nel campo dei Tory, per esempio, Theresa Mayha detto ai Comuni che le ipotesi sul piatto sono tre “Deal, No Deal, referendum” ammettendo esplicitamente l’ipotesi; poche ore prima, il suo numero due, il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, aveva detto a Sky News che, a ben pensarci, l’ipotesi di un nuovo referendum ha dignità e merita di essere presa in considerazione. Il ministro degli Esteri Mark Field, addirittura ha detto che sarebbe più che felice di revocare l’articolo 50.

    

Ma, per quanto paradossale possa sembrare, il vero potere, in questa faccenda, ce l’hanno i laburisti, e pace se sono in minoranza. Sono Jeremy Corbyn & co. a guidare la danza, visto che i loro voti, sommati a quelli dei Tory dissidenti, potrebbero spostare gli equilibri. Inoltre è soprattutto al Labour che appartenevano i manifestanti di sabato (non tutti, certo, ma molti sì) con buona pace del fatto che Corbyn si sia esplicitamente e palesemente tenuto ben lontano dalla People’s March e che abbia detto che un nuovo voto non è nei suoi piani. Eppure, anche lì, qualcosa si crepa e fa somigliare la Brexit, qualunque cosa accada, più a un gioco di defezioni incrociate che a una trattativa parlamentare.

   

Uno dei più vicini a Corbyn, il ministro ombra del Lavoro Keir Starmer, ha detto che sì, il Labour potrebbe approvare un secondo referendum. A patto però che prima ci siano nuove elezioni (a cui, comprensibilmente, i corbyniani tengono molto, visto che sono messi bene nei sondaggi). Il piano, secondo Starmer, potrebbe essere: approviamo il piano May (o un altro piano, magari il mercato unico 2.0 che Corbyn considera la soluzione migliore), poi sciogliamo le camere e votiamo. Il Labour si impegna a far svolgere un referendum confermativo (un feroce e piuttosto sinistro contrappasso con David Cameron). Il piano, se funzionasse, sarebbe perfetto: l’asso pigliatutto per Corbyn che si garantirebbe i voti dei suoi, più quelli degli europeisti, più quelli dei brexitesrs, visto che lui stesso ha detto che, in caso di voto, voterebbe per il leave.

   

Tutto questo però rimane per aria. Di concreto, al solito quando si parla di Brexit, non c’è niente. Solo una sempre più visibile frattura tra gli inglesi: gli europeisti si sentono ostaggio di una risicatissima maggioranza (51,8 per cento). I brexiters, invece, si sentono minacciati e disprezzati da una classe dirigente che, dicono, sta facendo di i tutto per disconoscere il loro voto. Un durissimo articolo pubblicato sul giornale conservatore Spectator dall’editorialista Brendan O’Neil dice molto chiaro: “Non avrei mai pensato di vedere tanti miei concittadini marciare per la soppressione del voto di quelli con cui non sono d’accordo. Ho visto un cartello che diceva ‘Revoke this shit’, laddove per ‘this shit’ intendevano la volontà di milioni di persone”. Questo, prima di tutto è quello con cui il Regno Unito dovrà fare i conti: la legittimazione reciproca. Il voto remain, è bene ricordarlo, era un voto urbano e colto, quello di Leave era un voto povero e disagiato. Il voto di chi, da anni, a torto o a ragione, ha l’impressione di assistere da dietro a un vetro a una festa cui non è invitato, ma può solo guardare. Gente, insomma che è più abituata a perdere che a vincere. E che, se per caso rimedia una vittoria, foss’anche del 51,8 per cento, è disposta a tutto per non lasciarsela strappare dalle mani. Neppure da un milione di persone in marcia.

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