Il cantiere di Saint-Martin-La-Porte della Torino-Lione (foto LaPresse)

L'atteggiamento dell'Italia verso l'Ue rischia di bloccare l'Europa

Maurizio Maresca

Infrastrutture, concorrenza, diritto europeo. Il rischio è che gli altri stati membri potrebbero preferire di non subire la costante pressione italiana e frenare il processo di integrazione

Da più parti si segnala il rischio dell’atteggiamento tenuto dal nostro paese con le autorità europee in materia di controllo e riduzione del debito pubblico in base alle regole sul patto di stabilità e crescita. La realtà è che, se nella materia dei bilanci nazionali gli stati sono ancora liberi salvo un obbligo di rispetto di alcuni parametri fissati nei trattati, il nostro paese mostra molta difficoltà (da sempre ma soprattutto oggi) a rispettare e attuare il diritto europeo della tradizione: quello che viene in rilievo attraverso regole e princìpi del tutto vincolanti e di diretta applicazione sin dagli anni Cinquanta.

Come è forse noto, una serie di disposizioni del trattato sono volte a creare una rete europea “core” da attuare entro il 2030 per assicurare la coesione fra paesi dell’Unione ed evitare differenti livelli di sviluppo. Proprio su spinta dell’Italia sono stati disciplinati, così, alcuni corridoi che collegano il Mediterraneo all’Europa centrale attraverso alcuni tunnel o valichi alpini fondamentali per la configurazione della rete. Ora, mentre Svizzera e Austria hanno tempestivamente realizzato (o in alcuni casi sono in procinto di realizzare) i tunnel del Loetchberg, del Gottardo , del Koralm e del Semmering, l’Italia è ancora molto indietro nella realizzazione della Lione-Torino, del Terzo valico e del collegamento Trieste-Divaccia verso Slovenia ed Ungheria. E se, oltre al ritardo già di per sé grave, si aggiunge la scelta del governo italiano di cancellare o rallentare i collegamenti internazionali, il rischio sarebbe quello di un pregiudizio, non solo in termini di crescita di alcune importanti città (come Torino e Genova) ma dell’intera politica dei trasporti europea se venissero a mancare i collegamenti verso sud previsti dagli strumenti europei più recenti. Ed evidentemente molti paesi sarebbero ben lieti, se così fosse , in occasione della revisione periodica delle ten-t, di prendere atto che i corridoi internazionali che interessano l’Italia sono superati.

  

In secondo luogo non vi è dubbio che la politica del governo di oggi in materia di impresa pubblica pare confliggere direttamente con il diritto comunitario della concorrenza. È noto, forse, che la privatizzazione di molte imprese pubbliche (delle banche, dei trasporti, delle infrastrutture) ha avuto luogo negli anni 90 a seguito di una intesa ( accordo Andreatta-Van Miert) proprio per assicurare trasparenza al mercato evitando la commistione e il conflitto fra regolatore e regolato e per evitare gli aiuti di stato che in quel periodo inquinavano l’economia. Ne è derivato, anche in Italia, un mercato dove tendenzialmente il pubblico si astiene dall’esercizio di attività di impresa mentre si concentra sulla amministrazione pubblica e sulla regolazione. Le scelte più recenti del nostro governo, invece, inequivocabilmente nel senso del rafforzamento dell’impresa pubblica e addirittura della nazionalizzazione di importanti operatori privati (autostrade, banche, trasporti aerei), restituisce l’idea alla Commissione europea e agli altri stati di un ordinamento nazionale che entra in conflitto diretto con l’ordinamento europeo anche per quanto riguarda il governo del mercato.

  

Da ultimo si consideri l’atteggiamento, tutto italiano, secondo in quale la sovranità nazionale produrrebbe l’effetto di mettere in dubbio lo stesso primato del diritto europeo anche nelle materie di competenza Ue. Non sembra sempre cogliersi il punto secondo il quale da un lato è del tutto normale che più stati mettano in comune alcune competenze per essere più forti insieme, e dall’altro che la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto in numerose occasioni l’assoluta legittimità di una rinuncia parziale alla sovranità ai sensi dell’art.11 della Carta.

  

Quanto sopra induce a ritenere che, intenzionale o meno, l’atteggiamento del governo italiano porterà a un allontanamento graduale dall’Unione. Con il rischio che gli stati che ritengono di porre mano alle necessarie riforme europee potrebbero preferire di non subire la costante pressione italiana nel senso di frenare il processo di integrazione. Questo rischio è tanto più evidente se si considera la prospettiva oggi concreta di una intesa fra Francia e Germania sulla riforma proposta dal presidente Macron: da una parte per dare luogo a maggiori responsabilità condivise per rafforzare il mercato unico e la politica integrata del commercio internazionale e dall’altra per ridurre i paesi membri a quelli davvero necessari e che si riconoscono senza esitazioni nella carta europea.