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Perché ci metteremo poco a rimpiangere la lungimiranza di una leader come Angela Merkel

Veronica De Romanis

La ricetta che ha risollevato le sorti della Germania a metà del primo decennio del duemila è stata l’azione congiunta delle riforme e del rigore fiscale

Finisce l’èra di Angela Merkel. Nel 2021, la donna più potente del mondo uscirà dalla scena politica tedesca. Una decisione difficile ma inevitabile dopo i risultati delle ultime tornate elettorali in Baviera e in Assia. Forse avrebbe dovuto lasciare prima: tredici anni alla guida della Germania sono lunghi e il rischio di minare la propria popolarità è concreto. Angela Merkel ne è consapevole quando accetta di correre ancora una volta per lo scranno più alto del paese. Decide di candidarsi perché considera necessario proteggere i valori europei dagli attacchi dell’amministrazione Trump: “Noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”, disse in occasione del G7 di Taormina.

 

Il quarto mandato è tutto in salita. L’Spd, il partito alleato, è debole e litigioso. Il governo, per di più, si inserisce in un quadro politico interno complesso dove avanza – ma ancora non sfonda – la forza di ultra destra, Alternative für Deutschland, che cavalca le paure dei tedeschi, a cominciare da quella dei migranti. A differenza di alcuni dei suoi colleghi europei, Merkel non rincorre i populisti che – in cerca del consenso – propongono “soluzioni facili a problemi complessi”. La risposta alla sfida dell’immigrazione non può che essere “a lungo termine e europea”: una posizione che ha mantenuto anche quando, nel settembre del 2015, decise di aprire le porte a “chi fugge dalla guerra e dalle torture”. Per questa scelta, improvvisa e mal spiegata, la cancelliera ha pagato un costo politico elevatissimo: così è iniziato il suo declino. Eppure il paese cresce a ritmi sostenuti, il tasso di disoccupazione è ai minimi storici, le finanze pubbliche sono in ordine. Dopo oltre sei anni di dura crisi che ha coinvolto l’intera area della moneta unica, Angela Merkel lascia una Germania in buona salute dal punto di vista economico. Un risultato che non deve stupire, sostengono i suoi detrattori, dal momento che nella gestione della crisi europea, la cancelliera ha portato avanti unicamente gli interessi tedeschi. Questa descrizione, molto diffusa anche in Italia, non corrisponde, però, alla realtà dei fatti. Il ruolo svolto da Angela Merkel è stato fondamentale per trovare soluzioni a una crisi che stava mettendo in discussione la sopravvivenza dell’euro e, nel contempo, tenere insieme la Germania.

 

Grazie al suo pragmatismo e alla sua politica dei piccoli passi, è riuscita a far accettare ai tedeschi misure come i programmi di salvataggio dei paesi in difficoltà o il Quantitative easing che – solo pochi anni fa – sembravano inimmaginabili per i tedeschi. Lo ha fatto senza creare strappi, mantenendo unito il paese. Non certo un’impresa facile. Basti pensare che quando il parlamento approvò il primo pacchetto greco, i voti contrari furono 72 di cui 4 dalle file della maggioranza; per il terzo pacchetto i voti contrari furono più del doppio, di cui 60 provenienti da parlamentari del governo. Una bocciatura da parte del Bundestag avrebbe certamente compromesso il salvataggio di Atene e, forse, il futuro dell’euro. La cancelliera ha rassicurato chi riteneva che le tasse dei tedeschi non dovessero essere utilizzate per soccorrere un paese che aveva vissuto al di sopra dei propri mezzi e che mandava in pensione le persone a 50 anni (una delle prime riforme della Merkel fu quella di innalzare l’età della pensione a 67 anni) spiegando che la “solidarietà” dei creditori europei sarebbe stata accompagnata dalla “responsabilità” del governo greco perché gli aiuti concessi non erano un dono bensì un prestito. E, infatti, in cambio degli aiuti, Atene si impegnava a implementare riforme economiche e politiche di consolidamento fiscale con l’obiettivo di cambiare il modello di sviluppo, tornare a crescere e essere in grado di rimborsare in futuro il debito contratto.

 

Se la Merkel avesse offerto aiuti incondizionati non avrebbe mai ottenuto i voti necessari per far approvare i pacchetti di salvataggio. Del resto, quale leader politico avrebbe potuto “regalare” soldi alla Grecia, alla Spagna, all’Irlanda, al Portogallo e a Cipro? Eppure, la responsabilità delle politiche di austerity è stata addossata solo a lei: non agli altri leader e non, soprattutto, ai governi dei paesi che a causa delle loro finanze allegre si sono visti chiudere l’accesso dei mercati e, pertanto, hanno dovuto chiedere aiuto ai cittadini europei.

 

Per quanto riguarda i nuovi strumenti mesi in campo durante la crisi, la cancelliera è riuscita a far accettare il Quantitave easing nonostante la forte opposizione di parte del suo partito e, soprattutto, della Bundesbank, la banca centrale tedesca. Il presidente, Jens Weidmann, cosi come il membro tedesco del comitato esecutivo della Banca centrale europea, Sabine Lautenschläger, ha votato contro il Qe, dichiarando pubblicamente che si trattava di “una droga” che avrebbe incoraggiato gli stati con elevato debito pubblico a rimandare – fino a evitare – l’aggiustamento fiscale dal momento che l’azione della Bce avrebbe ridotto il costo del servizio del debito e, di conseguenza, il disavanzo in rapporto al pil. Secondo Weidmann, il Qe avrebbe incentivato l’azzardo morale sui conti pubblici: un rischio che in alcuni paesi si è concretizzato. Basti pensare al caso italiano. Nel periodo 2013-2017, il disavanzo è sceso dal 3 per cento del pil al 2,3. La riduzione di 0,7 punti percentuali è interamente ascrivibile al calo della spesa per interessi, passata dal 4,6 per cento al 3,8. In sostanza, i governi Renzi-Gentiloni hanno utilizzato i vantaggi del Qe, ossia i margini di bilancio derivanti dal prolungato periodo di tassi bassi, non per mettere in ordine i conti pubblici ma per aumentare la spesa corrente. A guardar bene, questo è proprio quello che vorrebbe fare l’attuale governo quando chiede il prolungamento del Qe oltre la data di scadenza prevista per il prossimo dicembre. Stando così le cose, difficile immaginare un successore di Angela Merkel disposto a appoggiare un allungamento del Qe per concedere spazi fiscali all’Italia. Se l’Italia vuole fare maggiore debito per finanziare spesa corrente, alcuni in Germania una soluzione l’avrebbero già trovata: sottoscrizione forzosa di titoli di stato per una quota pari al 20 per cento del risparmio privato. Angela Merkel non ha mai proposto nulla di simile. La ricetta che ha risollevato le sorti della Germania a metà del primo decennio del duemila è stata l’azione congiunta delle riforme, che hanno garantito la “sostenibilità” dello sviluppo economico, e del rigore fiscale che significa per la cancelliera “responsabilità” verso le giovani generazioni. In definitiva, quando Angela Merkel sarà uscita dalla scena politica, rischieremo di rimpiangerla.

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