Le proteste dei musulmani in Pakistan contro la decisione della Corte suprema su Asia Bibi (foto LaPresse)

Asia Bibi e il silenzio degli indecenti

Matteo Matzuzzi

Gli islamisti vogliono la forca per i giudici che hanno assolto la donna cristiana. Il problema Pakistan

Roma. Ieri mattina, alle 9 ore di Islamabad, il presidente della Corte suprema del Pakistan, Mian Saqib Nisar, ha letto la sentenza che ha rimesso in libertà Asia Bibi, la madre di famiglia cattolica che dal 2009 è in carcere perché rea di blasfemia. Condannata due volte a morte per aver insultato il Profeta Maometto bevendo un po’ d’acqua dallo stesso secchio dove posavano le labbra altre donne, braccianti come lei, di fede islamica. Che subito l’avevano denunciata all’imam del villaggio, non proprio avvezzo ai costumi della rule of law. Ci sono voluti nove anni di supplizio, tra violenze psicologiche e fisiche, prima che un tribunale di tre magistrati ordinasse “la libertà immediata” non sussistendo alcuna prova certa che l’offesa al Profeta fosse stata effettivamente pronunciata. Quel che era già certo nove anni fa ha trovato una ragione legale solo oggi, mentre il paese intero s’infiammava sul destino di questa contadina cattolica. Per Asia Bibi, ora, non resta che l’espatrio: via dal Pakistan per non finire nelle mani dei fanatici islamisti che discettavano tranquillamente nelle settimane scorse, in tv e sui social, se fosse più opportuno impiccarla o crocifiggerla. Gruppi politici di stampo radicale avevano promesso di mettere il paese a ferro e fuoco se il verdetto fosse stato assolutorio: hanno mantenuto la promessa. Migliaia di manifestanti hanno occupato le piazze, la strada tra Rawalpindi e Islamabad è stata bloccata e a protezione della Corte suprema è stato dispiegato un corposo cordone di sicurezza. Eroici sono stati i tre giudici che hanno rimesso in libertà Asia Bibi, nonostante le minacce di morte pendenti sulle loro teste: “Faranno una fine orribile”, garantiscono i fondamentalisti. Due anni fa la sentenza slittò perché un magistrato preferì rinunciare a giudicare il caso.

 

La blasfemia che porta al rogo

 

Il lieto fine della penosa vicenda non deve però oscurare la realtà: in Pakistan – come in altri paesi dell’area – la cosiddetta blasfemia può portare alla forca. Si va in galera se si osa definire “santo” un pastore protestante durante il suo funerale (è accaduto due anni fa), perché “santo” è aggettivo che spetta solo al Profeta. Human Rights Watch stima che nel braccio della morte pachistano, alla fine del 2017, ci fossero “almeno 19 persone”. Altre centinaia sono in attesa di processo. Tutte per lo stesso identico motivo: avere, forse, offeso Maometto. Che poi l’offesa consista nella bestemmia pubblica o nel bere dallo stesso secchio da cui attingono i fedeli musulmani, cambia davvero poco. E’ lo stesso Pakistan alleato dell’occidente dove nel 2014 due giovani sposi cristiani – avevano 26 e 24 anni – furono arsi vivi da una folla furibonda che li accusava di avere bruciato una copia del Corano. Ed è sempre in Pakistan che un anno fa uno studente ventitreenne, Mashal Khan, fu trascinato fuori dal dormitorio dell’Università di Mardan e assassinato perché sospettato di “aver commentato in modo blasfemo i precetti islamici”. Insomma, un problema con l’islam, anche nella sua derivazione non politica, esiste. “Questa legge sulla blasfemia rappresenta un problema: la comunità internazionale, non dovrebbe intervenire?”, domandava il cardinale Jean-Louis Tauran, all’epoca presidente del pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso. “Quello che è ancora più grave – aggiungeva – è che è stata invocata la religione, in modo specifico”.

 

Il fatto è che “come fate spesso anche voi occidentali per codardia o ignoranza, dire che l’islam ‘è una religione di pace’ non è, semplicemente, vero. Nel Corano esistono versetti in contrapposizione fra loro, dipende quali si scelgono. La questione è dunque scegliere, spiegare, contestualizzare ciò che fu detto secoli fa”, diceva il padre gesuita Samir Khalil Samir, tra i maggiori islamologi viventi. In Pakistan, oggi, pare che si siano scelti quelli più cruenti.

 

Nell’eroica sentenza sul caso di Asia Bibi, il giudice Nisar ha giustificato la decisione citando il Corano: “L’islam può tollerare qualsiasi cosa ma insegna la tolleranza zero per l’ingiustizia, l’oppressione e la violazione dei diritti di altri esseri umani. La libertà di religione è garantita dall’islam, che vieta la coercizione in materia di fede e credo”. Un capolavoro retorico che aveva prima di tutto lo scopo di isolare le frange fondamentaliste che da nove anni invocano il cappio per Asia Bibi brandendo il sacro testo come sostegno incontrovertibile al proprio fanatismo. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.