Donald Trump (foto LaPresse)

Due condanne giudiziarie mettono Trump all'angolo, dove è più pericoloso

Daniele Raineri

Dopo che Cohen si è dichiarato colpevole e Manafort è stato condannato, si è tornato a parlare per davvero di impeachment

Roma. Martedì è arrivata contro il presidente americano Donald Trump una doppia botta giudiziaria senza precedenti nella storia del paese. Uno dei direttori della sua campagna elettorale, Paul Manafort, è stato condannato per reati finanziari commessi nell’ambito di una brutta storia di milioni nascosti in banche estere e l’avvocato fidato da decenni, Michael Cohen, si è dichiarato colpevole per avere commesso un reato federale con risvolti scandalosi durante la campagna elettorale – quando pagò due donne perché non parlassero delle loro relazioni con Trump (che nega tutto). Il risultato è che l’idea di eliminare il presidente con un impeachment, da tempo sparita dalle conversazioni, è tornata con prepotenza. Tanto per fare due esempi di peso: ne parlano sia Mike Allen, uno dei giornalisti americani più abili in politica, sia Bret Stephens, un commentatore molto conservatore che è passato dal Wall Street Journal al New York Times. Dal punto di vista tecnico la rimozione è più difficile di quanto sembra, perché anche dopo la disfatta giudiziaria la procedura di impeachment deve partire dal Congresso, che in questo momento è in mano ai repubblicani. Il 6 novembre ci saranno le elezioni di metà mandato che potrebbero cambiare l’equilibrio: la Camera (che può far partire l’impeachment con un semplice voto a maggioranza) potrebbe diventare democratica ma il Senato (che può procedere all’impeachment con una maggioranza dei due terzi) potrebbe restare un posto sicuro per il presidente.

 

E quindi? Ci sono almeno due temi da tenere d’occhio. Uno è la reazione di Trump, che in questi quasi due anni di mandato ha dimostrato in modo esplicito di essere pronto a infrangere qualsiasi tradizione repubblicana per vincere contro i suoi oppositori. Da una parte continuerà con la sua linea difensiva, che dal punto di vista pratico è corretta: i guai giudiziari di Manafort e di Cohen non c’entrano con la Grande accusa che gli incombe sul capo, quella di una collusione con il governo russo per battere Hillary Clinton e diventare presidente americano. Tuttavia, la condanna di Manafort è arrivata perché il lobbista era finito sotto le attenzioni del team di Robert Mueller, il procuratore speciale che indaga su Trump. Se non altro, Mueller (che non dice mai una parola) dimostra di essere efficace e smentisce tutti i trumpiani che in questi mesi hanno provato a ridicolizzare e minimizzare le sue indagini – ricordate il “nothingburger” o “la caccia alle streghe”, due parole d’ordine usate spesso dal campo di Trump. Inoltre Cohen è stato incastrato per altro, ma potrebbe collaborare con Mueller e come avvocato personale per decenni potrebbe avere materiale interessante. E c’è da considerare che questi colpi giudiziari sono carburante niente male per la campagna elettorale dei democratici.

 

Secondo un commento pubblicato mercoledì dal Weekly Standard, la rivista conservatrice americana che non si riconosce in Trump, il presidente potrebbe anche partire all’attacco con alcune misure che la rivista definisce “nucleari”. Potrebbe assicurare il perdono presidenziale a chiunque finisca indagato da Mueller e così disinnescare le pressioni del procuratore – che ottiene collaborazione promettendo agli indagati pene molto più miti. In questo modo Trump toglierebbe al suo nemico la sua arma più efficace. Potrebbe licenziare Mueller e la sua squadra, e anche chiunque al dipartimento di Giustizia non obbedisca ai suoi ordini. E potrebbe anche revocare gli accessi alle informazioni segrete (la clearance) che permettono ai funzionari di Washington di fare il loro lavoro. “Se credete – scrive Jack Goldsmith, il professore di Harvard che firma il commento – che non lo farebbe allora non avete fatto attenzione finora. Trump è convinto fin nel midollo che radere al suolo le istituzioni lo avvantaggi”. 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)