Paul Manafort (foto LaPresse)

Paul Manafort, il superpentito

Daniele Raineri

Trump diceva: “L’inchiesta non mi fa paura perché lui non mi tradirà”. Ma ieri è cambiato tutto

New York. Ieri l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, si è dichiarato colpevole davanti al giudice come parte di un accordo di collaborazione piena con il procuratore speciale Robert Mueller. E’ il colpo più grosso dell’inchiesta sulla possibile collusione tra il candidato Trump e il governo russo per vincere le elezioni presidenziali del 2016 perché Manafort, lobbista coinvolto in molti traffici, è al centro di tutta la storia fin dall’inizio ed era presente – e scriveva appunti – all’ormai famoso incontro alla Trump Tower del giugno 2016 in cui i russi offrirono materiale compromettente contro Hillary Clinton a Donald Jr, figlio di Trump (accettare aiuto da una potenza straniera in una corsa elettorale è illegale). Con l’ammissione di colpevolezza di Manafort e con le elezioni di metà mandato il 6 novembre si materializza di nuovo la possibilità dell’impeachment, di cui si torna a parlare a cicli. Il 6 novembre il voto potrebbe consegnare al Partito democratico anche il Senato e non soltanto la Camera, grazie a un vantaggio nei sondaggi così alto che viene chiamato “onda blu”. Se i democratici avessero davvero il controllo del Congresso potrebbero far partire la procedura di impeachment, anche se poi farla passare è più difficile. La seconda metà del mandato di Trump sarebbe quasi paralizzata, perché non potrebbe portare avanti il suo programma e dovrebbe consumare molto tempo a difendersi. Tuttavia, più la minaccia alla presidenza Trump diventa concreta più la sua base si risveglia e torna a fare il tifo per lui – o a votarlo per far schiumare di rabbia i progressisti americani, l’effetto è lo stesso.

 

Manafort è il quinto uomo di Trump a capitolare e ad accettare di collaborare. Qualche mese fa secondo la rete Nbc Trump confidava al telefono agli amici di non avere paura dell’inchiesta, perché Manafort non lo avrebbe tradito. A fine agosto, Trump aveva scritto su Twitter: “Mi dispiace davvero molto per Manafort e la sua meravigliosa famiglia. La ‘giustizia’ ha preso una vecchia storia di tasse di dodici anni fa, ha applicato una pressione enorme su di lui e lui ha rifiutato di ‘spezzarsi’ – inventare storie per ottenere un ‘accordo’. Ho così tanto rispetto per una persona così coraggiosa”. Ieri, secondo la Cnn, era davanti alla tv mentre tutte le reti davano spazio molto ampio alla notizia della dichiarazione di colpevolezza e al patto con i federali. Ora che Manafort collabora tutta la tesi di Trump – che l’inchiesta è una caccia alle streghe fondata sul nulla – viene a cadere. Se il suo ex manager ha fatto un accordo con Mueller, è perché aveva abbastanza materiale per negoziare uno sconto di pena. Secondo la Cnn, ha già cominciato a fornire informazioni, si è impegnato a sottoporsi a interrogatori e briefing con Mueller, a consegnare documenti, a collaborare in altri processi e a rinunciare alla presenza di un avvocato durante gli incontri.

 

Se adesso Trump concedesse il perdono presidenziale a Manafort, come si dice da tempo vorrebbe fare, lo scambio perdono in cambio di silenzio sarebbe vicino a quel reato, ostruzione di giustizia, che potrebbe giustificare un impeachment. E forse è ormai tardi, perché Mueller, che non concede nemmeno una parola ai media, lavora con efficienza per estrarre informazioni dai luogotenenti del presidente.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)