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La rivolta dei generali contro Trump si estende, ma avrà qualche effetto?

Eugenio Cau

Sono quasi 200 gli ex funzionari di sicurezza che hanno pubblicamente condannato la Casa Bianca. Ma il presidente non ha timore di infangare gli eroi di guerra

Roma. Nella sua ridda di tweet mattutini, ieri il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è tornato sul caso Brennan, mentre la “rivolta dei generali” cominciata la settimana scorsa si è estesa a tutti i ranghi degli apparati di sicurezza e di intelligence. Mercoledì scorso l’Amministrazione Trump ha ritirato a John Brennan, ex capo della Cia, il permesso (clearance) per accedere ai documenti classificati. E’ stata una punizione, giustificata in maniera piuttosto debole, contro l’attivismo antitrumpiano che Brennan ha dimostrato sui social media e in televisione negli ultimi mesi. Secondo molti analisti, inoltre, Trump ha tentato di usare il ritiro dei permessi a Brennan per deviare l’attenzione dalle registrazioni scandalose di Omarosa Manigault. In realtà l’affaire Omarosa non si è placato, e l’attacco a Brennan ha avuto come risultato la rivolta di alcuni dei più importanti militari americani.

  

Ha cominciato William McRaven, ammiraglio di Marina ed eroe di guerra, l’uomo che ha supervisionato l’operazione in cui nel 2011 fu ucciso Osama bin Laden. Giovedì scorso, McRaven ha scritto un editoriale sul Washington Post in cui chiede a Trump di ritirare anche a lui la clearance, e dice che avrebbe ritenuto un onore rientrare assieme a Brennan nel novero degli oppositori del presidente. McRaven ha una fama mitologica nell’ambiente della sicurezza americana e gode di alta considerazione bipartisan anche per il fatto di non aver mai ricoperto nessuna carica politica. Nello stesso giorno, 13 altissimi esponenti degli apparati di sicurezza e di intelligence di Washington hanno firmato una lettera per difendere Brennan. Tra i 15 ci sono i capi della Cia di tutte le presidenze da Reagan a Obama, e personaggi che fino a oggi non si erano mai esposti esplicitamente contro l’Amministrazione, come David Petraeus, ex capo delle forze americane in Afghanistan e Iraq e capo della Cia sotto Obama (caduto in disgrazia dopo un anno), e Robert Gates, capo della Cia sotto Bush senior e segretario alla Difesa sotto Bush junior. Tra gli altri firmatari ci sono William Webster, George Tenet, Porter Goss, Michael Hayden, Leon Panetta. Ieri 175 ex funzionari di alto e medio rango del dipartimento di stato e del Pentagono hanno aggiunto la loro firma a una versione leggermente rinnovata del documento dei 15, trasformando la rivolta dei generali in una rivolta degli apparati di sicurezza. Tra i nuovi firmatari ci sono l’ammiraglio James Stavridis, ex comandante della Nato, e l’ex vicesegretario di stato Anthony Blinken.

  

Che un gruppo folto di eroi di guerra, consiglieri di ex presidenti e public servant integerrimi decida di condannare un atto dell’Amministrazione potrebbe diventare un elemento di rottura importante, che Richard Haass del Council on Foreign Relations ha paragonato su Twitter a quel “Non ha più un briciolo di decenza?” con cui il militare Joseph Welch spezzò l’incantesimo del maccartismo. Ora che gli ex funzionari di sicurezza che hanno condannato pubblicamente Trump sono quasi 200 c’è abbastanza materiale per far preoccupare la Casa Bianca.

  

La domanda è: davvero Trump può essere scalfito dalla rivolta dei generali? I tweet di ieri sembrano indicare che il presidente sta usando alcune tattiche classiche: abbassare i suoi avversari, anche i più distinti, al terreno della rissa brutale (“Tutti vogliono mantenere il loro permesso di sicurezza, vale molto prestigio e molti soldi… ed è per questo che certa gente si sta esponendo per proteggere Brennan. Certo non per il buon lavoro che ha fatto!”) e rilanciare la posta (ieri ha ribadito la volontà di togliere la clearance a Bruce Ohr, dipendente di alto rango del dipartimento di Giustizia la cui moglie è stata coinvolta in un dossier anti Trump, e soprattutto ha sfidato Brennan, “peggior direttore della Cia della storia del paese”, a fargli causa). Il presidente non ha timore di infangare gli eroi di guerra: lo ha già fatto con John McCain, e tanto i repubblicani al Congresso quanto i suoi elettori l’hanno perdonato senza fiatare. 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.