Victoria Floethe e Michael Wolff (foto di Grace Villamil via Flickr/Financial Times)

Il Wolff travestito da agnello

Michele Masneri

Il giornalista-scrittore che ha inguaiato Trump si sente un po’ Balzac e fa gioco sulla vanità

E davvero non si capisce come mai, visto che i due hanno una consuetudine quotidiana, come si evince dal libro in uscita, Trump non abbia chiesto al fraterno amico qualche referenza. Forse non l’ha fatto semplicemente perché è un “fucking idiot”, secondo la lusinghiera definizione che del presidente, nel libro, dà proprio l’amico Murdoch. Il giudizio del tycoon fa parte di un gustoso aneddoto secondo cui Trump riceve alla sua torre appena eletto la delegazione di grandi imprenditori della Silicon Valley, e poi corre a telefonare a Murdoch dicendo soddisfatto: questi son venuti a chiedere il mio aiuto, bisognerà aiutarli, Obama non li capiva, e Murdoch replica come a un bambino demente che insomma la Silicon Valley non ha certo bisogno del suo aiuto perché teneva Obama per le palle. E poi, appunto, “fucking idiot” (dopo aver riattaccato).

    
Però anche Murdoch non ne viene fuori benissimo, a essersi fidato di Wolff. Adesso le sue telefonate e i suoi giudizi sul presidente finiscono tutti nel libro: lui con il commander in chief ha sempre avuto un ottimo rapporto, e la sua Fox News si è sempre distinta per l’amabilità, per buona parte della campagna elettorale e soprattutto dopo. Adesso qualcosa cambierà, si presume. Ci si chiede perché se non Trump, almeno Murdoch, che pare persona più scaltra, si sia fatto infinocchiare. Dopo che uscì la sua biografia, i parenti di Murdoch gli chiesero perché si fosse fidato. Forse era rimasto affascinato dall’aspetto roccioso, calvizie e occhiali aggressivi, di Wolff, noto per i giudizi taglienti e il suo muoversi perfettamente a suo agio tra politica, tecnologia e media. O forse perché in tutti – nell’astuto Murdoch e nell’idiota Trump – prevale la vanità d’essere comunque scrutati. Magari fatti a pezzi, ma immortalati.

        
Da parte sua, Wolff si è sempre sentito un po’ un Balzac delle classi tecnologiche americane. Gusto per le storie di personaggi ricchi e potenti, e talento imprenditoriale, si è dedicato negli anni al rapimento di Patricia Hearst e ai magnati di internet: ha cominciato negli anni Settanta come galoppino al New York Times, e poi ha scritto romanzi e guide per la rete, e fondato con la prima epoca delle startup Wolff Media. Poi sulla sua stessa vicenda ha scritto un bestseller (Burn Rate) spiegando la prima rivoluzione delle dot-com e mettendo in mezzo amici e colleghi, anche lì tutti imbufaliti. I suoi idoli sono Saul Bellow, Norman Mailer, Joseph Heller, Mark Twain. Scrive per Usa Today, Newsweek, Vanity Fair, il New York Magazine e l’Hollywood Reporter. Nel 2007 ha fondato il giornale online Newser. Ha un umorismo molto asciutto. Una volta lo si intervistò, e gli si chiese: cosa c’è nel futuro di Murdoch? “La morte”, fu la risposta.

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