Il ministro dell'Economia francese Bruno Le Maire (foto LaPresse)

In che senso "l'armonia fiscale europea" può essere virtuosa

Alberto Brambilla

Nelle sua intervista al Foglio, il ministro dell'Economia francese Le Maire lo ha definito un “tema al centro dell’agenda della Francia e dell’Europa”

Roma. Recentemente la Commissione europea e alcuni stati membri si sono detti determinati a sviluppare un sistema di tassazione europeo. Il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, intervistato dal Foglio, ha parlato della “armonizzazione fiscale” come “tema al centro dell’agenda della Francia e dell’Europa” dicendo che nei prossimi anni l’Eliseo insieme a Italia, Germania e Spagna si “muoveranno compatte per questa sfida storica” per moderare la concorrenza fiscale intraeuropea – che potrebbe rivelarsi dumping – perché da ciò dipende, dice il ministro, l’integrazione europea e il contrasto ai movimenti populisti.

 

Nicola Rossi, economista e già senatore, ex presidente dell’istituto liberista Bruno Leoni, è guardingo quando a liberismo si può accostare l’aggettivo “pragmatico” perché “finire per svuotare il sostantivo” e nel caso della Francia di Macron “la maggiore apertura del mercato del lavoro va nella direzione giusta, ma è presto per dare un giudizio definitivo”. Riguardo la creazione di un piano di gioco fiscale europeo Rossi distingue tra una operazione positiva, sulla omogeneità della base imponibile per i diversi tributi, e una distorsiva della sana concorrenza tra stati, come l’imposizione di aliquote uniche a determinare l’imposta. “Dipende cosa si ha in mente – dice Rossi – se l’armonizzazione fiscale fosse l’omogeneità delle basi imponibili lo troverei sensato, in modo che le imprese sappiano che se si muovono da un paese all’altro la modalità di calcolo dell’imposta rimane la stessa. Cosa completamente diversa è il carico fiscale con aliquote identiche: questo azzererebbe la possibilità di farsi sana concorrenza fiscale: non penso che sia possibile che l’Unione europea arrivi a decidere in questo senso perché c’è una varianza non piccola nelle aliquote fra paesi. I paesi con le aliquote più basse dovrebbero accettare di innalzarle ma dubito seriamente che gli altri paesi decidano di innalzare le aliquote per le varie imposte. Certo, per noi che siamo nella zona alta, tutto ciò implicherebbe una riduzione delle aliquote. E non sarebbe male”. La concorrenza fiscale, intesa in questo senso, è infatti considerata naturale non solo tra gli stati americani ma anche tra cantoni svizzeri.

 

La difficoltà di trovare una convergenza tra stati europei è presto spiegata da Dario Stevanato, professore ordinario di diritto tributario all’Università di Trieste, in quanto i paesi più piccoli, a cominciare dal Lussemburgo passando per Olanda per arrivare ai paesi dell’est europeo, dovrebbero alzare il carico fiscale auto-penalizzandosi o modificare la loro politica industriale, come l’Irlanda che agevola le imprese del settore tecnologico. “Italia e Francia, ancora di più, svettano nelle classifiche per pressione fiscale e subiscono la concorrenza degli stati più piccoli che fissano aliquote più basse. Quindi – dice Stevanato – l’armonizzazione delle aliquote è quasi impossibile, i piccoli si opporranno, e per ora non è in agenda”. Se non si arriva a un accordo a maggioranza, è possibile la cooperazione rafforzata tra nove membri in accordo reciproco, i quali si troverebbero comunque al punto di dover contrastare la concorrenza degli altri diciotto. E’ più probabile che l’Europa persegua la strategia di creare una base imponibile comune recuperando la direttiva “Common consolidated corporate tax base” di cui si discute in questi mesi a Bruxelles legandola all’ambizione di limitare i trasferimenti di capitali nei paradisi fiscali e di tassare i giganti dell’economia digitale come Amazon, Apple, Facebook, Google e altri. L’Italia, unica in Europa, vuole introdurre una web tax, l’imposta del 6 per cento sul fatturato per le operazioni di tipo digitale. Il commissario alla Concorrenza, Margrethe Vestager, che fa anche da guardiano delle pratiche fiscali degli stati membri, ha detto che l’esempio italiano è “interessante” ma preferisce un approccio “a livello europeo o, meglio ancora, internazionale”. E’ probabilmente l’economia digitale il viatico per testare l’armonizzazione fiscale continentale.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.