Theresa May durante la sua visita in Giappone (foto LaPresse)

Non succederà May

Cristina Marconi

Ora la primo ministro dice che sarà la candidata Tory anche nel 2022. Imbarazzo a Londra

Londra. Mica vuole andare via dopo la Brexit, Theresa May. Che poi visto il risultato delle elezioni del giugno scorso e il silenzio calato sulla sua traballante leadership da allora, in teoria il rischio è che il suo partito possa decidere di mandarla a casa molto prima, forse già al congresso dei tories di inizio ottobre. Ma lei, intervistata durante la sua visita di stato in Giappone tra cerimonie del tè e calma osservazione dei giardini zen, ha detto e ripetuto che no, che “sono qui a lungo termine”, “non sono una che getta la spugna”, azzardando anche uno scenario in cui sarà lei a guidare il partito alle prossime elezioni. Improbabile, ma cruciale per rilanciare un’immagine un po’ più bellicosa e autorevole rispetto a quella di ‘badante della Brexit’ che i conservatori le hanno assegnato e che non promette di garantirle grande rispetto per il tempo che resterà a Downing Street. E subito si sono scatenate le reazioni dei suoi compagni di partito: il ministro degli Esteri Boris Johnson, che vorrebbe tanto diventare premier ma che ha contro quella metà del partito che gliel’ha giurata per tutte le sue giravolte e per i suoi tradimenti, ha cinguettato dalla Nigeria che non solo la May “è nella posizione ideale per portare a termine la Brexit”, ma che lui è “felice di sostenerla”.

 

Gli euroscettici tifano Theresa

 

Nella confusione totale in cui versa il processo di uscita dall’Unione europea, gli euroscettici sono tutti filo-May perché sanno che nel bene e nel male lei, nel suo non avere niente da perdere politicamente, è l’unica che può continuare la missione nazional-suicida senza danneggiare ulteriormente il partito, accollandosi questa fase ingestibile – sterlina debole, inflazione in crescita, fiducia dei consumatori sotto i piedi – come punizione per aver portato il paese alle urne e aver fatto una campagna elettorale pessima. Ma non tutte le dichiarazioni sono state flautate come quella di Johnson. Nicky Morgan, responsabile per l’istruzione, ha fatto presente che sebbene per tutti sia difficile annunciare la propria “mortalità politica”, è “difficile” che sia la May a condurre il partito alle prossime elezioni generali, previste per il 2022. Per Lord Heseltine, colui che avviò la ribellione e poi la caduta di Maggie Thatcher, “il lungo termine è la cosa più difficile per la May perché non credo che ne abbia uno”. E riprendendo la serie di delicate metafore che ha dedicato alla May da quando è direttore dell’Evening Standard, George Osborne ha detto della premier che è come uno di quei “morti viventi nei film dell’orrore”. Invece la May, reduce da tre settimane di vacanze che le hanno come di consueto dato delle idee – la sciagurata decisione di andare alle urne l’aveva presa passeggiando per i pendii della Snowdonia – ha deciso di aprire la stagione dando dei segni di vita e cercando di giocarsi le sue poche carte: una Brexit politicamente tossica, il fatto che non c’è un nome alternativo al suo e il fatto che il partito non può mostrarsi troppo spaccato davanti ad un Labour capace di sorprese. Ma come Osborne, sono troppi i ministri che non le hanno perdonato i metodi bruschi delle elezioni, la maniera in cui è stato scritto un manifesto senza consultarli, il bullismo fatto dai due ex consiglieri Nick Timothy e Fiona Hill. E quindi anche se non è tempo di cospirazioni, ce n’è da strada da fare per l’operazione “forgive and forget”, per farsi perdonare e per far dimenticare il giugno nero dei conservatori, passati dall’avere una leader con indici di popolarità stratosferici a essere costretti ad un patto scellarato con i nordirlandesi del Dup per governare. Ma in tempi di imprevedibilità politica alle stelle, anche alla May è concesso di sperare.

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