Sostenitore del "remain" a Londra (foto LaPresse)

La Brexit può essere solo hard. Viva l'Europa che non fa sconti ai sovranisti

Claudio Cerasa

Bloomberg scrive che "bisogna accettare la dura verità" sulla separazione tra Londra e l'Ue: per i britannici farà male. E per l'Europa sarà la vittoria sui populisti euroscettici 

Nell’estate dei risultati record dell’Europa – e nell’estate del passaggio improvviso dell’euro da moneta più instabile del mondo a moneta più affidabile del pianeta – il più grande spot contro la repubblica del sovranismo è quello che arriva ormai con una certa costanza dalla disgraziatissima Gran Bretagna, alle prese con le complicate conseguenze della Brexit. Un anno fa, come molti ricorderanno, in Europa si aggiravano osservatori di ogni natura politica convinti che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea avrebbe portato benefici insperati all’economia inglese. Oggi, a poco più di un anno dalla pressione del tasto “leave”, l’economia inglese si trova in condizioni molto complicate. Qualche dato utile. Pochi giorni fa, l’Office for National Statistics, l’Istat britannico, ha certificato che nel secondo trimestre del 2017 l’Inghilterra è l’unico paese del G7 a non crescere rispetto all’anno precedente (meno 0,3) e ha ammesso che nello stesso trimestre la spesa per consumi delle famiglie è cresciuta appena dello 0,1 per cento, una quota che non si registrava dal 2014. Rispetto al giorno precedente il referendum sulla Brexit, l’indice che misura il valore delle azioni della Borsa di Londra ha perso il 17 per cento; la Banca centrale inglese ha portato i tassi di interesse al livello più basso degli ultimi 322 anni; il pound ha perso il 12 per cento del suo valore, facendo aumentare l’inflazione e facendo perdere agli inglesi potere d’acquisto (dal giorno successivo alla Brexit a oggi, in Gran Bretagna i prezzi medi dell’Apple Store sono aumentati del 25 per cento).

 

  

Come ricordato sabato scorso in una bellissima inchiesta del New York Times sulla Brexit, infine, “più di un quarto delle maggiori società finanziarie in Gran Bretagna dice che sposteranno membri del personale o parte delle sue operazioni all’estero, mentre le maggiori banche d’investimento come Goldman Sachs, JPMorgan e Morgan Stanley dicono che sposteranno buona parte del proprio lavoro sul continente, per attenuare i rischi della Brexit”. Le condizioni dell’economia inglese sono così complicate da aver convinto il maggior partito d’opposizione, guidato dall’icona no global Jeremy Corbyn, a intestarsi una paradossale battaglia politica e culturale in difesa della globalizzazione e a favore di una soft Brexit, che nelle intenzioni del Labour dovrebbe avere un unico e concreto effetto: evitare che dopo il completamento dell’iter della Brexit, previsto per il marzo 2019, la Gran Bretagna abbandoni il mercato unico europeo. Anche alla luce del nuovo giro di colloqui partito ieri tra il capo negoziatore dell’Ue, Michel Barnier, e il ministro per la Brexit David Davis, l’impressione è che abbia ragione il sito di Bloomberg quando, come ha fatto ieri in un fondo non firmato, consiglia alla comunità finanziaria inglese di non farsi illusioni e di iniziare a guardare il post Brexit per quello che è: un disastro.

 

 

“Britain – scrive Bloomberg – must accept the hard truth about Brexit. The greatest need of all is to prepare the U.K. for disappointment”. Il dato sul quale vale la pena concentrarsi, e che sarà lo spartiacque politico e diplomatico dei prossimi mesi, è che in Europa esiste ormai una maggioranza ampia e trasversale composta da Germania, Francia, Italia e Spagna (e Bce) convinta che con l’attivazione decisa da Theresa May dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona oggi non esista alcun modo né per evitare una hard Brexit – “non ci sono più soluzioni win-win”, ha detto il 24 agosto il braccio destro di Angela Merkel, Peter Altmaier – né per evitare di mandare in onda l’incredibile spettacolo che arriva oggi dalla Gran Bretagna. Durante un incontro organizzato pochi giorni fa in Germania con alcuni ex premi Nobel, l’economista americano Daniel McFadden ha detto che, a osservarla oggi, la Brexit può essere considerata come il più grande errore politico della storia d’Inghilterra, secondo solo al momento in cui nel 1783 Re Giorgio III si fece sfuggire tredici colonie inglesi in America, facendo segnare l’inizio dell’arretramento storico del regno inglese. Ieri, l’addio delle colonie inglesi fu il preludio alla Guerra d’indipendenza americana. Oggi l’addio della Gran Bretagna all’Europa, più in piccolo, potrebbe portare a un’altra forma importante di indipendenza: quella mostrata dall’Europa contro ogni forma di sovranismo politico.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.