Amnesia e solitudine. Comincia a fare freddo sull'Isola di May

Alberto Brambilla

Aumentano i segnali economici che il Regno potrebbe uscire indebolito, insicuro, e impoverito dai negoziati che l’Ue vuole avviare “sul serio”, mettendo pressione sul titubante governo conservatore

Roma. “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli, di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”, scriveva Jorge Luis Borges. Il grande autore argentino era colpito da cecità ereditaria, ma vedeva lucidamente. Rinunciando alla permanenza nell’Unione europea nel giugno scorso, invece, i cittadini del Regno Unito sembrano aver perso la facoltà di vedere e comprendere che per novecento anni, dall’invasione di Guglielmo il Conquistatore, la storia britannica ha contribuito a modellare la fisionomia europea. Una guerra ventennale con la Francia a cavallo tra il 1793 e il 1815, l’acquisizione di Gibilterra, avamposto verso l’Africa, di Minorca, Malta, Cipro. E così via. Per non parlare ruolo inglese nella caduta di Hitler. Ora aumentano i segnali economici che il Regno potrebbe uscire indebolito, insicuro, e impoverito dai negoziati che l’Unione europea vuole avviare “sul serio”, mettendo pressione sul titubante governo conservatore di Theresa May.

 

L’Inghilterra non è stata influente in Europa solo quando era spaccata all’interno: sotto il divisivo Re Giovanni (XIII sec.), durante le guerre delle rose (nel XV), con la guerra civile (1642). La parziale amnesia storica – concime e insieme spurgo della Brexit – è già una perdita. Ma sembra che le controparti internazionali non riconoscano più nel volto del Regno il carattere dell’eccezionalità, ormai sinonimo di isolamento anziché di potenza, ergo un handicap.

 

L’impero britannico nel 1900 si estendeva dal Polo nord al Polo sud, Canada, India, Egitto, Birmania, Malacca, Singapore. Ora ha una proiezione post-coloniale ovviamente ristretta che, per giunta, è minacciata dalla Brexit. May fatica a imporsi nei consessi bilaterali. A novembre l’India dell’autocrate Narendra Modi fece valere il suo peso economico-demografico intimando a May di rivedere le limitazioni all’ingresso di cittadini indiani se vorrà strappare un accordo commerciale a quella che fu una lucrosa colonia britannica. In queste ore May è in volo verso Tokyo, lambita dai missili nordcoreani, ma non avrà la chance di discutere un accordo di libero scambio con il Giappone. Il primo ministro Shinzo Abe ha già intavolato un’intesa politica, da sviluppare, con l’Ue per uno dei più grandi accordi commerciali di sempre. A May non è concesso inserirsi. “Non possiamo negoziare finché il Regno Unito è fuori dall’Ue. Penso che la cosa che Abe desideri sentirsi dire dalla prime minister è dove pensa di approdare con la Brexit”, ha detto Yoshiji Nogami, ex ambasciatore a Londra. Dopo il referendum molte società finanziarie giapponesi hanno lasciato Londra per Francoforte o Amsterdam. Morgan Stanley, Citigroup e Standard Chartered sono tra le banche di rango mondiale che hanno scelto la città tedesca come centro d’affari. Forse la City non sarà mai più quella comunità coesa, al di là delle rivalità personali, che fu dal crollo del mercato finanziario di Parigi nel 1870 in poi, ovvero quando i principali banchieri si trasferirono a Londra perché lì avvenivano le transazioni più importanti. Il baricentro si sposta in Germania, nella metropoli della Bce.

 

May pensava di avanzare pretese e conservare privilegi, ma accade l’opposto. La periferica Grecia potrebbe costringere il Regno Unito a restituire le sculture del Partenone esposte al British Museum. Di questo passo l’India avrebbe agio a pretendere, come fa da due secoli, il Koh-i-Noor, il diamante della Corona, conservato nel museo della Torre di Londra, estratto nell’antica Golconda. La Francia potrebbe chiedere il rimpatrio di un pezzo di stucco della camera dove morì Napoleone dal Cuming Museum, il lussuoso rifugio dove Richard e il figlio Henry Cuming, veri signori del XIX secolo, hanno ammassato per centoventi anni tutto quello che trovavano nei loro viaggi. Smemorata, solitaria, disillusa. Inizia a fare freddo sull’Isola di May.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.