Theresa May, ieri al suo intervento in televisione (foto LaPresse)

Cosa significa quando May agita lo spauracchio del "no deal" sulla Brexit

Luca Gambardella

La premier dice che con l'Ue "è meglio nessun accordo piuttosto che uno fatto male". Sullo sfondo c'è la strategia elettorale e l'assenza di un serio piano B da parte di Londra

Roma. In due dibattiti televisivi separati, la premier britannica Theresa May e il leader del Labour Jeremy Corbyn hanno dato due ricette ben diverse su come intendono gestire i negoziati sulla Brexit in caso di vittoria alle prossime elezioni dell'8 giugno. "Tratteremo per ottenere un buon accordo ma quello che intendo dire è che è meglio non avere alcun accordo piuttosto che uno cattivo", ha spiegato May rispondendo alle domande a Sky News. La tesi della premier non è nuova ed era già stata ventilata da tempo dalla leader del governo per tentare di mettere pressione alla controparte europea in vista dei negoziati che inizieranno il 19 giugno: meglio lasciare il tavolo dei negoziati piuttosto che cedere alla linea dura di Bruxelles, è il senso delle parole di May, che ha accusato più volte l'Ue di volere imporre condizioni dure a Londra come deterrente per altre eventuali fuoriuscite dal blocco dei 27 stati membri. D'altra parte, Corbyn ha spiegato che in caso di vittoria cercherebbe un'intesa con l'Ue, a costo di allungare la trattativa con Bruxelles oltre i due anni previsti.

 

 

Gli ultimi sondaggi danno il Labour in ripresa. Alla vigilia dell'annuncio delle elezioni anticipate, la sinistra britannica era distaccata da una distanza siderale dai Tory. Negli ultimi giorni c'è stata un'inversione di tendenza e il partito di Corbyn è ora a 6 punti percentuali dai conservatori (due settimane fa era a 18 punti). Ieri in televisione il giornalista Jeremy Paxman ha anche lanciato una provocazione a May: "Devo dire che se fossi seduto davanti a lei a Bruxelles e dovessi guardarla come la persone con cui devo negoziare, penserei: 'E' solo una gradassa che cade al primo colpo di pistola'". Ma sempre secondo i sondaggi, May è anche considerata dagli elettori britannici più capace e con maggiore esperienza rispetto a Corbyn nel condurre i negoziati con l'Ue. Anche per questo, nelle ultime settimane, i toni sulla Brexit usati da Downing Street nei confronti di Bruxelles sono diventati più duri: May intende concentrare la campagna elettorale sui negoziati per catalizzare i voti di coloro che la ritengono la persona giusta per condurre le trattative sulla Brexit. L'annuncio rivolto ieri sera da May sul "no deal" potrebbe allora rientrare nella strategia elettorale dei Tory, ha scritto stamattina Reuters.

 

Ma cosa significa lasciare il tavolo dei negoziati? Il presidente dell'Ue, Donald Tusk, ha detto che un "no deal scenario" sarebbe "un male per tutti, ma soprattutto per il Regno Unito, perché lascerebbe molte questioni irrisolte". Londra conta di chiudere i negoziati a marzo 2019, nella migliore delle ipotesi unendo le trattative sull'articolo 50, quello che sancisce la separazione dall'Ue, con quelle per un nuovo accordo commerciale con gli altri 27. Dal punto di vista di Bruxelles, l'ipotesi è difficilmente realizzabile. L'Ue vuole condurre i due negoziati in modo separato: prima il divorzio e solo dopo, eventualmente, si parlerà di un accordo di libero scambio.

 

 

Ad oggi non esiste un piano britannico nel caso di un "no deal" con Bruxelles. Lo ha ammesso in Parlamento il segretario alla Brexit, David Davis, quando ha detto che il governo non ha ancora tracciato un piano B di questo tipo, nemmeno a livello di valutazione economica. Davis ha anche spiegato che uno scenario di questo tipo sarebbe il peggiore tra quelli prevedibili.

 

Se a marzo 2019 non trovasse un accordo con Bruxelles, Londra e l'Ue si ritroveranno a gestire i propri commerci in base alle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, che significa scambiare beni e servizi dietro il pagamento di dazi doganali. May ha già detto che conta di concludere accordi commerciali integrativi con altri singoli paesi europei per ridurre le tasse doganali. Un'ipotesi che i 27, presi singolarmente, potrebbero accettare per evitare un'indesiderata guerra commerciale con Londra. Ma al di là delle code di camion merci sulla due sponde della Manica, i danni veri potrebbero arrivare dalle conseguenze nel settore finanziario. Secondo gli esperti, l'impatto nel breve termine sarebbe disastroso per il settore dei servizi di Londra e del resto dell'Ue per via della scomparsa del sistema di libera circolazione, che attualmente non prevede il rilascio di licenze agli operatori finanziari che intendono lavorare in qualunque dei paesi membri. I più pessimisti ritengono che l'Ue cercherebbe altri mercati finanziari per le proprie transazioni rispetto a quello di Londra. L'impatto di un "no deal" avrebbe anche ripercussioni serie sullo status dei cittadini europei residenti nel Regno Unito e viceversa. Ieri, la Commissione Ue ha diffuso due working paper sui princìpi che intende seguire da qui a marzo 2019. Uno di questi è focalizzato proprio sui diritti da garantire ai cittadini europei, un capitolo che secondo Bruxelles dovrà essere affrontato in modo organico nelle trattative e non lasciato alla discrezionalità di Londra.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.