Yang Jiechi e Tillerson (Foto LaPresse/Xinhua)

Chi sono gli uomini del team cinese che prepara l'incontro di questa settimana tra Trump e Xi Jinping

Eugenio Cau

Yang Jiechi, il capo della diplomazia di Pechino, ha preso in mano il dossier americano con approccio nazionalista

Roma. L’incontro questa settimana a Mar-a-Lago tra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il suo corrispettivo cinese, Xi Jinping, sarà “un appuntamento al buio tra due maschi alfa”, ha scritto, scherzosamente, il South China Morning Post, giornale pubblicato a Hong Kong ma di proprietà cinese e bene addentro agli affari di Pechino. In preparazione all’evento, i media americani si sono concentrati su Jared Kushner, genero-consigliere di Trump, e sul suo principale contatto cinese a Washington, l’ambasciatore Cui Tiankai, con cui Kushner ha orchestrato la prima telefonata tra i due leader, a febbraio. Ma da Pechino, dietro le quinte, il gran manovratore della politica estera cinese e della gestione delle relazioni con l’America risponde al nome di Yang Jiechi, membro del Consiglio di stato e numero uno della diplomazia della Repubblica popolare cinese. Yang fa parte del “team Xi” che sta gestendo questa fase delicata di costruzione di un rapporto inedito con gli Stati Uniti sotto Trump e di riempimento di quel vuoto – di autorevolezza internazionale, di capacità di proiezione del potere, di forza stabilizzante su vari teatri mondiali – lasciato per ora dal nuovo isolazionismo di Washington.

 

Al contrario di quanto succede nelle democrazie occidentali, dove il diplomatico più alto in grado è il ministro degli Esteri o il segretario di stato, in Cina il capo della diplomazia è il consigliere di stato con delega agli affari internazionali, gerarchicamente superiore al ministro degli Esteri. Secondo un ritratto pubblicato in questi giorni dal Scmp, è stato Yang, dunque, a prendere in mano il dossier di Mar-a-Lago nelle ultime settimane, è stato lui, il mese scorso, ad accogliere il segretario di stato americano Rex Tillerson in visita a Pechino e a parlare con lui al telefono ieri mattina per le ultime dichiarazioni di rito. Prima di essere consigliere di stato, Yang è stato a sua volta ministro degli Esteri e ambasciatore negli Stati Uniti tra il 2001 e il 2005, ed è uno dei volti cinesi più noti negli ambienti washingtoniani, ma il suo primo approccio con l’Amministrazione Trump è stato difficoltoso. Il primo viaggio di Yang in America, a dicembre, è stato considerato un fiasco diplomatico, e solo dopo la telefonata tra Trump e Xi di febbraio i toni si sono distesi a sufficienza perché Yang e il team Xi potessero avanzare l’idea di una visita del presidente cinese in America. A fine febbraio Yang era di nuovo nello Studio ovale a porre le basi per l’incontro tra i leader. Se davvero Xi ha lasciato a Yang la gestione del dossier americano, come sostiene il Scmp, è un sintomo che Pechino è pronta allo scontro diplomatico. Nonostante i suoi modi melliflui, Yang è un falco in politica estera, famoso per le sue dichiarazioni taglienti sui diritti inalienabili di Pechino nel mar Cinese meridionale e per la rivendicazione della preminenza cinese su tutta l’Asia. Il team Xi in politica estera è composto quasi esclusivamente da falchi – esattamente come lo è il team che gestisce la questione cinese per conto di Trump, fatta eccezione per Jared Kushner. Dopo Yang c’è il ministro degli Esteri Wang Yi, anche lui definito un nazionalista e altrettanto celebre per le uscite dure contro i giornalisti occidentali. Sempre al fianco di Xi in tutti i viaggi importanti c’è poi Wang Huning, consigliere che da anni aiuta a plasmare la politica interna ed estera della Cina, e che è stato definito il Karl Rove e l’Henry Kissinger di Xi, tutto in una persona. Secondo un profilo del Wall Street Journal del 2013, Wang è il capo dei neoconservatori cinesi, di quella scuola di pensatori che fin dagli anni Novanta ha convinto i leader di Pechino a tenersi lontani da ogni forma di apertura politica e a perseguire il nazionalismo di stato.

 

Tra le persone che hanno l’orecchio di Xi in politica estera, dunque, pare che l’unico a controbilanciare la spinta nazionalista sia Liu He, tecnocrate di Harvard visto come il più importante riformatore dentro alla nomenclatura cinese. Le sue funzioni riguardano soprattutto la politica economica e finanziaria, ma in molti lo considerano una voce di moderazione anche negli affari internazionali.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.