I combattenti dell'esercito iracheno, nei pressi di Mosul (foto LaPresse)

Mosul è un simbolo e deve cadere

Redazione
Questa battaglia è in anticipo sui tempi, ma in ritardo sulla Storia

L’operazione per riprendere Mosul è un po’ lo sbarco in Normandia della guerra contro lo Stato islamico in Iraq e quindi ci sono tante prime volte: per la prima volta il capo supremo del gruppo Abu Bakr al Baghdadi ha quasi chiesto ai suoi combattenti di non disertare, come se non fosse più tanto sicuro della loro lealtà; per la prima volta l’esercito iracheno è entrato nella parte est della città da liberatore; per la prima volta curdi, sciiti e americani, che si detestano al punto di uccidersi, si sono allineati su uno stesso fronte circolare dove non cooperano e però coabitano. Se gli uomini di Baghdadi perdono il loro fanatismo irriducibile, allora perdono la loro prima e forse unica forza, quella che è un vantaggio tattico su tutti i loro nemici, il desiderio di morte. Senza quello, diventano una qualsiasi milizia mediorientale in mimetica e sandali e con meno armi degli eserciti che si muovono nella stessa area – e quindi sono alla loro mercé. Venerdì le forze speciali irachene hanno annunciato di avere preso sei distretti nella parte orientale della città. Certo ci vorrà altro tempo, forse molti mesi, e ancora la zona più difficile, sulla sponda occidentale del Tigri, è lontana dalle colonne dei blindati dei soldati iracheni, eppure oggi è uno spettacolo normale vedere i giornalisti occidentali frugare con le telecamere e le luci tra i resti lasciati dai jihadisti dentro posti dove, un mese fa, sarebbero stati ammazzati.

 

Toccando legno, per dirla all’americana, le operazioni sono quindi in anticipo sui tempi. L’accrocchio di forze che si sta misurando con i baghdadisti sotto gli aerei americani – e con un orecchio incollato all’Iran via radio – sta facendo bene. Il candidato repubblicano, Donald Trump, era stato parecchio pessimista e aveva parlato dell’operazione come di un “disastro totale”, ma per ora le premesse reggono. Ci sono tante ragioni per cui Mosul deve cadere, ma la più importante è questa: se lo Stato islamico perde il suo territorio allora il suo grande disegno storico si affloscia, perde la capacità di attrarre le reclute da tutto il mondo, di affascinare i teenager tunisini, i disadattati uzbeki, gli sdraiati britannici e la racaille francese. Mosul di quel territorio è la gemma splendente, il gioiello della corona, il segno della vittoria che benedice le campagne militari di Baghdadi. Senza Mosul, la luce del gruppo estremista non brilla più così forte. Questa battaglia è in anticipo sui tempi, dunque, ma in ritardo sulla Storia. Se l’operazione fosse cominciata prima, è indubbio che ci saremmo risparmiati la vista di uno Stato islamico così forte e così dominante, e forse anche alcuni dei suoi massacri compiuti in occidente. Fate di Baghdadi un perdente, e con lui resterà soltanto una frangia di fanatici. Gli affascinati, quelli illusi dall’espansione del proto Califfato, si dilegueranno e lo lasceranno solo alle prese con il drone fatale o con il soldato iracheno che già l’attendono.

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