Cosa c'è dietro i 25 anni di crescita ininterrotta dell'economia australiana

Maurizio Stefanini

Alte esportazioni di materie prime, vicinanza col mercato cinese e gestione oculata dei profitti: ecco come funziona il modello Australia.

“È ufficiale: l’Australia ha realizzato 25 anni di espansione economica ininterrotta”, ha annunciato mercoledì il ministro delle Finanze Scott Morrison che ha commentato gli ultimi dati resi noti dall’Ufficio australiano di Statistica. Il paese ha registrato un più 0,5 per cento del pil tra aprile e giugno, che corrisponde a un più 3,3 su base annua. Non è un record assoluto, come ha ricordato il Sidney Morning Herald: i Paesi Bassi, tra il 1981 e il 2008, erano cresciuti per 26 anni e mezzo di fila. Ma quella serie positiva è finita, mentre quella australiana continua e lascia pensare che presto il primato olandese sarà battuto. Inoltre, mentre quel miracolo fu interrotto dai contraccolpi della Grande Recessione innescata con la crisi dei subprime, l’Australia – l’unica tra i paesi sviluppati dell’Ocse – è riuscita a superare l’ostacolo indenne.

 

“Questa crescita è un omaggio a tutti gli australiani che lavorano o che hanno creato un’impresa”, ha commentato il ministro Morrison. Il miracolo australiano deve molto alla vicinanza con la Cina e al fatto che l’export non si basa su prodotti manifatturieri ma sulle materie prime. Tra il 2002 e il 2011 il valore delle sue esportazioni minerarie è triplicato, e tra il 2003 e il 2011 il valore delle esportazioni del ferro è aumentato addirittura di 13 volte. L’Australia ha così approfittato del trend che ha favorito i paesi produttori di commodities, come quelli petroliferi, tra cui quelli di America latina, Africa, la Mongolia e la Russia. Ma mentre questi sono cresciuti durante la crisi europea e nordamericana, per poi iniziare a deprimersi una volta che il vento è cambiato, l’economia australiana continua ad andare a gonfie vele. Insomma, il paradosso spesso considerato pericoloso di un paese avanzato con esportazioni da paese emergente permette invece all’economia australiana di crescere sia quando vanno bene i paesi avanzati, sia quando vanno bene quelli emergenti.

 

L’eccezione australiana dimostra come un’economia basata sull’export di commodities non sia affatto una maledizione in sé. Lo diventa se le risorse delle materie prime vengono utilizzate per sostenere un potere autoritario, nella variante sultanista del modello; irresponsabile, in quella populista; o autoritario e irresponsabile assieme, in quell’altro tipo di varianti il cui massimo esempio recente è stato il chavismo. Vari economisti e giornali come Economist o il Monde  hanno sottolineato come invece la caratteristica della politica economica australiana sia stata in tutti questi anni il senso di responsabilità. Sia gli esecutivi laburisti che quelli nazional-liberali in questo quarto di secolo sono stati concordi nell’amministrare con oculatezza i profitti degli anni di vacche grasse, in modo da avere le risorse necessarie quando l’economia aveva bisogno dell’iniezione di stimoli. I 56,6 miliardi di dollari australiani con cui il governo ha sostenuto l’economia nel 2008-09, al cambio 42,8 miliardi di dollari americani, hanno rappresentato il più alto stimolo in rapporto al pil che sia mai stato messo in pratica nel mondo (se si esclude la sola Cina).

 

Gli investimenti nell’industria mineraria sono cresciuti dal 2 per cento del pil nel 2002, all’8 nel 2012, e nel contempo il governo ha avuto cura di mantenere il cambio basso. Per questo, l’export di materie prime australiane continua ad aumentare anche ora che la Cina rallenta: una tendenza che vale sia per i minerali, che comunque sono avvantaggiati dalla maggior vicinanza, sia per il settore agrao-alimentare australiano, che è considerato più sicuro dei prodotti di casa dai consumatori cinesi. Ovviamente, se il record dei 26 anni e mezzo di crescita ininterrotta è a portata di mano, qualche dubbio sulle reali possibilità che questa possa durare ancora a lungo c’è. L’Australia, d’altra parte, non si adagia sulle commodities, tant’è che l’educazione e il turismo rappresentano il 14 per cento del valore dell’export.

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