Proteste a Londra, davanti all'ambasciata francese sul tema del burkini (foto LaPresse)

Francesi e anglosassoni si menano sul burkini, l'islam e il liberalismo

Giulio Meotti
Dal chador a Rushdie, tutto nasce nel 1989. Si arriva a Charlie, al caso Ramadan e alle diatribe femministe. Ieri il premier francese Manuel Valls ha detto: “La concezione liberal anglosassone non è la mia”. Anche Sarkozy contro il modello britannico. Il modello inglese di libertà personale ha prodotto anche le cento corti della sharia e un’apartheid all’interno della common law.

Il primo ministro francese, Manuel Valls, ieri è tornato a difendere la politica draconiana sul burkini, il costume da bagno islamico, sostenendo che il bando è necessario non per il rischio di violazione dell’ordine pubblico, ma in nome di una lotta per la dignità delle donne. “Il burkini è un simbolo di asservimento delle donne”, ha detto Valls. Il primo ministro socialista dovrebbe a questo punto compiere un salto logico inevitabile: occuparsi davvero di questo asservimento delle donne islamiche nelle democrazie europee. In Olanda c’erano intere zone dove la polizia olandese non metteva piede e le donne venivano sottoposte a mutilazione genitale.

 

Fino a quando ci è entrata una donna, Ayaan Hirsi Ali, prima da assistente sociale e traduttrice, poi da deputata laburista. Occuparsi di asservimento della donna musulmana significa combattere la piaga dei delitti d’onore, dei matrimoni forzati, della mutilazione genitale, i grandi tabù che proliferano in intere aree delle città europee considerate “segregate”, perse quindi all’integrazione, autentici ghetti multiculturali. La Francia ne è piena. Si dice “mariée de force”, sposata con la forza. Il movimento “Ni putes Ni soumises” stima che solamente nell’Ile-de-France e nei sei dipartimenti a più forte popolazione islamica vi siano settantamila adolescenti musulmane minacciate dai matrimoni forzati. Sono molte di più dei burkini da multare sulle spiagge della Costa Azzurra.

 


 

Roma. I giornali anglosassoni non la capiscono proprio la messa al bando francese del burkini, il costume da bagno delle pie musulmane. Il Financial Times, in un articolo di Delphine Strauss, sostiene che i francesi vogliono rendere “invisibili” le donne musulmane. Così David Aaronovitch sul Times di Londra: “Solo menti distorte imporrebbero un divieto del burkini. Se rifiuto completamente l’idea di forzata ‘modestia’, faccio altrettanto col concetto di forzata esposizione”. Durissimo il New York Times, che in un editoriale non firmato che incarna la linea del quotidiano scrive: “Questa isteria minaccia, stigmatizza e marginalizza i musulmani di Francia”. Per gli anglosassoni, la laicità alla francese è un assurdo ideologico, una distopia, una religione del silenzio che incatena la libertà. Una laicità non inclusiva che si fa ideologia di stato: in nessun altro paese democratico ci si era mai posti l’obiettivo dell’adesione dei cittadini alla laicità. Li si paragonano ai giacobini che sfondavano le porte dei conventi di clausura e ingiungevano alle monache: “Uscite, e invece di ali angeliche indossate il paracadute della nazione”.

 

Dalla loro, i francesi rispondono che nella Francia alla prova dell’integrazione non è ammissibile che i musulmani riscrivano il contratto sociale. Una legge deve, anche generando ingiustizie, far fronte ai ghetti delle cité islamique, il disastro di una convivenza sociale sull’orlo del tracollo e della guerra civile. Per poter proteggere tutti bisogna che nessuno si arroghi il diritto di prevalere. Perché la “chadorizzazione” attraversa il mondo islamico, l’Iran khomeinista, la Turchia post-kemalista, la diaspora europea. Il secolarismo alla francese ha un ruolo importante anche in quei paesi arabi “moderati”, come Tunisia, Marocco e Algeria, dove infatti il burkini è stato bandito in molte piscine e spiagge, da Marrakesh ad Hammamet.
Esiste oggi in Europa un’alternativa a questo modello? Kenan Malik ha appena pubblicato in Italia per le edizioni Uaar il libro “Il multiculturalismo e i suoi critici”, in cui sostiene che se la Francia è “assimilazionista”, l’Inghilterra è “multiculturalista”. Ieri il premier francese, Manuel Valls, ha dichiarato: “La Francia è un paese diverso, la concezione liberal degli anglosassoni non è la mia”. Anche l’ex presidente francese Nicholas Sarkozy, nuovamente candidato alle presidenziali nel 2017, nel libro “Tout pour la France” che esce questa settimana attacca: “Non siamo come gli anglosassoni che consentono alle comunità di vivere fianco a fianco ignorandosi. Si deve combattere il multiculturalismo”.

 

A Londra vige il diritto totale alla propria identità negli spazi pubblici. Un modello cui si ispira anche il “Poldermodel”, il sistema sociale che ha fatto dell’Olanda “la patria mondiale dell’assistenzialismo”, tenere tutto assieme, portare braccia all’integrazione, costi quel che costi, anche lo stato di diritto. Un sistema che un anno fa è penetrato anche nel modello “neutralista” della Germania, quando la Corte suprema tedesca ha stabilito che “le insegnanti musulmane potranno indossare il velo nelle scuole” e che l’islam va incluso nelle materie scolastiche. In una intervista al Monde, Trevor Phillips, ex presidente della Commissione per l’uguaglianza razziale in Inghilterra, ha sintetizzato così gli estremi di questo scontro di società: “Da un lato, la tradizione repubblicana francese che richiede che ogni immigrato si assimili, dimentichi il proprio passato, lasci il suo bagaglio culturale al confine, e impari a parlare francese come Giscard. Dall’altra parte il sistema statunitense, che ha infettato la Gran Bretagna, con i suoi ghetti etnici o religiosi”.

 

L’Inghilterra ha scelto una strada apparentemente più rispettosa della libertà di religione, ma nei fatti ha nutrito un secolarismo senza unghie fatto anch’esso di ghetti identitari. La Cambridge University alle studentesse islamiche ha dato “il permesso di laurearsi con il burqa integrale se è stato indossato quotidianamente” durante il loro corso di studi. In Inghilterra sono fermentate cento corti della sharia che hanno imposto un’apartheid legale all’interno della common law. Questi tribunali sono un burkini macro, si fondano sul rifiuto del principio di inviolabilità dei diritti umani, dei valori di libertà e di uguaglianza che sono alla base delle democrazie europee. In Inghilterra e in nord Europa, a un malfermo diritto laico si lascia contrapporre la sharia, in cui tutto è esposto all’arbitrio teocratico. In Inghilterra si sta procedendo, infatti, all’immissione dell’islam in settori importanti del governo del paese, dal diritto alla finanza fino all’università. Sono state elaborate linee guida per notai e avvocati con l’obiettivo di mettere a punto documenti riconosciuti dai tribunali britannici ma che abbiano allo stesso tempo specifiche caratteristiche conformi all’islam. Quattro dipartimenti (Lavoro e pensioni, Tesoro, Fisco e dogane, ministero dell’Interno) hanno intanto riconosciuto la poligamia. Nonostante la pratica sia illegale in Inghilterra dal 1604, dai tempi di re Giacomo, i poligami islamici beneficiano di privilegi sociali riconosciuti dagli enti pubblici inglesi.

 

La fatwa, Mitterrand e il governo inglese

 

A differenza della Francia, in cui destra e sinistra fanno muro attorno alla laicità, numerose personalità inglesi hanno aperto alla sharia. Come uno dei più alti in grado fra i giudici britannici, James Munby. Come Rowan Williams, ex arcivescovo di Canterbury, o il presidente della Corte suprema, Lord Phillips, che hanno auspicato che il diritto inglese riesca a inglobare elementi della sharia. “Non vi è alcun motivo per cui i princìpi della sharia non dovrebbero essere la base per la mediazione o altre forme di risoluzione alternativa delle controversie”, ha detto Phillips.

 

La legge islamica avanza nelle università pubbliche del Regno Unito. Le linee guida “External speakers in higher education institutions” prevedono che “gruppi religiosi” possano separare uomini e donne durante gli eventi. Si dice che “le preoccupazioni di coloro che si oppongono alla segregazione non devono prevenire che i gruppi religiosi partecipino a un dibattito pubblico secondo i loro princìpi”. Così alla Queen Mary University di Londra, per fare solo un esempio, le donne hanno dovuto usare un ingresso separato e sono state costrette a sedersi in uno spazio in fondo alla sala, senza porre domande o alzare la mano, a differenza del pubblico maschile, neanche fossimo a Riad o a Teheran. Nella pratica, i rettori degli atenei inglesi consentono a gruppi islamici di separare gli studenti dalle studentesse durante gli incontri che avvengono nei campus.

 

Nel libro “Why the French Don’t Like Headscarves”, l’americano John Bowen sostiene che tutti i contrasti fra liberalismo e islam in Francia risalgono a una data particolare, il 1989, quando Parigi e Londra presero strade completamente diverse. “Nello straordinario autunno che ha visto il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’est, i francesi hanno avuto altro a cui pensare”, scriveva allora, con molta ironia, Edward Mortimer sul Financial Times. In Gran Bretagna, in occasione della polemica contro i “blasfemi” Versi satanici di Salman Rushdie, “una parte significativa del tradizionale establishment politico e religioso si è schierata dalla parte dei musulmani” e della loro “rabbia”: letterati, giornalisti, cardinali, politici, non si contavano. In Francia tutti invece a invocare il “diritto alla blasfemia” in democrazia. A Parigi si fece della difesa dello scrittore braccato una questione di civiltà. Il presidente francese François Mitterrand definì la fatwa un “male assoluto”, mentre Il ministro degli Esteri inglese, Sir Geoffrey Howe, sulla Bbc prendeva le distanze da Rushdie: “Il libro stesso è profondamente offensivo per le persone di fede mussulmana”. Fu sempre nel 1989, nella città francese di Creteil, che scoppiò l’affaire del foulard islamico nelle scuole, quando tre studentesse furono sospese per essere entrate in classe velate. Nel 1989 nacque anche il Fronte Islamico di Salvezza, protagonista della futura guerra civile algerina, con i timori francesi di un riflusso.

 

Il pudore filoreligioso anglosassone ha avuto anche cascami sinistri. Dopo la strage a Charlie Hebdo, non un solo grande media anglosassone ha ripubblicato le vignette su Maometto all’origine del massacro. Anzi, dal Financial Times con Tony Barber che ha dato di “stupidi” ai vignettisti francesi, a Sky News che ha interrotto il collegamento pur di non mostrare il Maometto che piange, passando per tutti i quotidiani americani e i grandi network come Cbs, Nbc, Abc e Cnn, l’autocensura ha regnato dopo l’assalto alla libertà di espressione nella capitale della cultura europea. La Bbc annunciò che avrebbe parlato della copertina senza mostrarla, una scelta condivisa da tutti, dal sinistrorso Independent e dal destrorso Telegraph. Quest’ultimo ha tagliato l’immagine in modo da espungere la caricatura del Profeta. La vigliaccheria del modello anglosassone cominciò a palesarsi durante la crisi delle vignette danesi nel 2006. Mentre Charlie Hebdo veniva trascinato a processo a Parigi e messo sotto scorta, i quotidiani americani capitolavano per malcelato terrore, con le sole eccezioni di Weekly Standard, conservatore, e Free Inquiry, ateo, due giornali con una tiratura molto limitata.

 

Se l’islamista Tariq Ramadan è consulente dei governi inglesi da Tony Blair a David Cameron e ha una cattedra a Oxford, in Francia non gli danno neppure la cittadinanza e viene bandito da molti sindaci, anche di sinistra. La sua ricetta di retorica comunitarista e orgoglio religioso, “pudore” femminile e risveglio delle coscienze, pragmatismo e islam come “la soluzione”, piace molto agli inglesi. E’ grande anche la distanza che separa le femministe francesi da quelle anglosassoni. Elisabeth Badinter ha testimoniato all’Assemblea nazionale a favore della legge che ha vietato il burqa sui luoghi di lavoro, rivolgendosi così alle donne musulmane: “Siamo così spregevoli e impure ai vostri occhi da rifiutare ogni contatto, ogni connessione con noi, fino al sorriso?”.

 

Per Badinter, che si definisce “féministe universaliste” contro le derive relativiste del movimento, se si concede alle donne il diritto a una rappresentanza speciale come gruppo, tutti gli altri gruppi etnici e religiosi avanzeranno anch’essi la medesima richiesta e ciò sarebbe la morte della Repubblica. Una posizione che ha inimicato Badinter agli occhi delle femministe come Judith Butler, papessa liberal a Berkeley, per la quale “un velo può significare la fede, può significare appartenenza a un gruppo, può significare, forse, la negoziazione di una donna tra spazio pubblico e privato”. Anche la creatrice del burkini, Aheda Zanetti, ha scelto le colonne del Guardian, giornale delle chattering classes britanniche, per attaccare Parigi.

 


La creatrice del burkini, Aheda Zanetti (foto LaPresse)


 

Non a caso ieri, di fronte all'ambasciata francese a Londra, c’è stata una manifestazione femminista contro il bando del burkini. Sul chador a scuola e in Costa Azzurra, sul liberalismo alla prova della sfida islamica, sulla libertà di espressione, non si esce dal clivage fra la laïcité de combat alla francese e il laisserz-faire anglosassone. La domanda è una sola: quale dei due modelli di società riuscirà a impedire l’islamizzazione dello spazio pubblico, chiamato laico nella cultura francese, e secolarizzato in quella inglese?

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.