Manuel Valls arriva all'Eliseo (foto LaPresse)

Provare a prendere sul serio Valls e le ragioni del suo no al burkini

Umberto Minopoli
Non si tratta di una sacrosanta libertà di esibizione dei propri simboli religiosi da tollerare con liberale compassione. Il burqa al mare è l’equivalente del cilicio: una sofferenza.

Al direttore - Sto con Valls. “Non si può ridurre lo scontro di civiltà a un costume di bagno”, scrive il Foglio. Siamo d’accordo. Ma nemmeno si può ridurre a proibizionismo il divieto del burkini. O peggio: ad atto statalista ma inutile perché, come allude l’editoriale occorre ben altro che “multare braccia e gambe coperte al mare”. Prendiamo sul serio Valls. Lui non è sospettabile di pulsioni stataliste o di indulgenza a desueti adagi socialisti e giacobini di dettato del comportamento etico. Valls ha, perfino con sincera ingenuità, scoperto il problema chiave nel contrasto al terrorismo islamico. Che sta in una domanda: l’offensiva terroristica è preoccupante solo per il suo aspetto militare e stragista o, anche, per le conquiste “egemoniche” che intende realizzare? C’è un aspetto di guerra di movimento e di conquista di casematte culturali nell’assalto terroristico? L’assalto agli “stili di vita” riguarda solo la scelta dei target delle azioni militari dei terroristi? Probabilmente la crudeltà e la inaudita violenza degli attentati ha fatto passare in secondo piano gli aspetti culturali dell’offensiva islamista. Quegli aspetti che Houellbecq sottolineava in “Sottomissione”. E che si è scioccamente irriso e, troppo presto, liquidato con i proclami del politicamente corretto –  “Non è una guerra di religione” – per dire che non è una battaglia culturale e, diciamolo, di civiltà.

 

L’ingenuo Valls ha osato motivare il “divieto” del burkini in base a due affermazioni, poste a premessa del suo discorso di appoggio alle multe e ai divieti dei sindaci francesi. La prima: non multiamo un capo di abbigliamento. Sarebbe sciocco. Multiamo un simbolo religioso e culturale. Che non è un’innocente iconografia, come quella dei simboli cristiani nei luoghi pubblici. Ma un comportamento indotto, coprirsi in circostanze sconvenienti, che contiene una diretta violenza su persone: imporre alle donne un vestiario che ha una precisa intenzione punitiva e costrizione al disagio. Perché quel costume, ha chiesto Valls? Qualcuno, tra quelli che strepitano alla libera volontà adulta delle islamiche, conculcata dai divieti francesi, ha il coraggio di negare che l’unica ragione, motivazione e utilità di quell’orrendo capo di abbigliamento è veicolare un’esplicita umiliazione del corpo femminile? E il messaggio orripilante iscritto in quell’abito: “Sono un corpo femminile, di natura peccaminoso e degradante, e per questo devo coprirmi”? Uno stato liberale ha il dovere di contrastare questa barbarie. Non si tratta di un’innocente credenza da tollerare. Non si tratta di una sacrosanta libertà di esibizione dei propri simboli religiosi (nemmeno quello comune a tutte le religioni monoteiste di coprire il capo) da tollerare  con liberale compassione. Il burqa al mare è l’equivalente del cilicio: una sofferenza. Non importa se imposta o autoimposta. E una sofferenza che ha una dichiarata motivazione ideologica: la scandalosità e l’indegnità del corpo femminile. Si tratta, dice a ragione Valls, di un proclama di guerra a un principio chiave della libertà liberale: la parità dei sessi.

 

Ma, fosse solo questo, si sarebbe potuto difendere l’argomento liberale della dignità del corpo femminile senza proibizionismi e senza divieti. Confidando sulla schiacciante superiorità attrattiva, per le donne islamiche, dei liberi indumenti da spiaggia delle donne occidentali in base ad argomenti quali l’utilità, l’agevolezza, la pertinenza ambientale e la comodità. Lasciate che ci arrivino da sole, bofonchiano i gauchisti più comprensivi. Valls, però, ha avanzato un secondo argomento. Come dire? Di attualità contingente dei divieti. Perché, ha chiesto,  si è scatenata proprio ora questa inaudita disputa sui costumi? E ha messo in relazione il contrasto a un costume con l’attualità della lotta al terrorismo. Con argomenti opposti al codardo, irresponsabile  e indecente piagnucolio di un improbabile ministro italiano. Che scambia i provocati per provocatori. “Qui signori cari, dice in sostanza Valls,  non stiamo multando un vecchio abbigliamento arabo o musulmano che qualche signora, legittimamente, intende esibire per tradizione, consuetudine e abitudine. Fosse così… Stiamo adottando misure complementari a una guerra che ci hanno dichiarato e che si compone di tanti tasti da muovere. Tra cui quelli ai simboli esibiti e di propaganda di questa guerra”. Perché nessuno si è chiesto: perché si scatena, proprio ora, questa disputa sul “corpo femminile” e il burkini (versione estiva del burqa totale)? Io non credo che per tre generazioni di arabe o popolazioni femminili di culto islamico stanziali in Europa da oltre 50 anni ci sia stato mai un problema di balneazione. Come il burqa per le donne iraniane, turche, egiziane, tunisine: non è affatto un retaggio di costume secolare.

 

Attenzione. La maniacale ossessione di ricoprire il corpo delle donne arabe è, checché se ne dica, una perversione di tempi recenti. Fa il suo ingresso ufficiale, nel museo della schiavitù, degli orrori feudali e dell’insulto all’umanesimo liberale, con la rivoluzione khomeinista del 1979. Di lì si è diffusa come una metastasi, nel mondo islamico, in modo direttamente proporzionale al progredire della radicalizzazione religiosa e della affermazione di un’unico islam: quello fondamentalista, sciita o sunnita che fosse. Oggi che il fronte radicale dell’islam ha aperto il jihad agli infedeli europei, puntualmente, l’utopia indecente del corpo femminile da nascondere diventa un tema di offensiva propagandistica e culturale. E’ la medesima agenda, un must dei fondamentalisti, di un quarantennio di radicalizzazione religiosa che ha significato, in tutto il mondo islamico, uno spaventoso regresso della condizione delle donne. L’offensiva del burqa, proprio ora, è un atto di guerra di movimento che si accompagna a quella di posizione degli attentati e degli attacchi militari. Perché non reagire? Questo ha avuto il coraggio di denunciare Valls, l’ingenuo Valls. E’ così bizzarro, tale argomento, da dar addosso al giovane premier francese? Provate a smontare i suoi argomenti. E, possibilmente, non con le formule ipocrite della gauche intellettuale che finge di scandalizzarsi alla multa alla libertà del costume da bagno. E che, in epoca di orfana mancanza di vecchi simboli antagonisti, di triste shortage dei suoi culti fossili e di affidabili certezze alternativiste, ritrova l’ebbrezza della trasgressione, della lotta al Pouvoir e dell’antagonismo provando a ficcare il corpo di una donna in un saio immondo.