Un manifestante indossa una maschera di Tony Blair con le mani insanguinate, davanti a dove è stato presentato il Chilcot report (foto LaPresse)

L'inchiesta su Blair è durissima, ma non riesce a dimostrare le bugie

Paola Peduzzi
La piazza che aspettava l’inchiesta sull’Iraq era l’immagine perfetta della crisi d’identità del Labour. Un viaggio tra i cori, i cartelli e le teorie del complotto su cui si fonda la leadership di Corbyn – di Paola Peduzzi

Londra. Tony Blair non ha mentito sulla guerra in Iraq, non ha falsificato le informazioni raccolte dall’intelligence, non ha ingannato il suo governo, non ha stretto patti segreti con l’alleato americano, l’allora presidente George W. Bush. Questo è scritto nel report Chilcot presentato a Londra mercoledì, il risultato di un’inchiesta che è durata più dell’intervento militare britannico in Iraq e che è durissima nei confronti dell’ex premier Blair – e nei confronti degli interventi militari in generale. E’ chiaro che per Sir John Chilcot e il suo team – che ha ascoltato 130 testimoni, ha consultato 150 mila documenti e ha scritto 12 volumi blu lunghi quattro volte e mezzo “Guerra e pace”: c’è un bigino di 150 pagine molto utile, per fortuna – la guerra è stata un errore da non ripetere più e le sue basi legali non erano affatto “soddisfacenti”. Blair è stato avventato e parziale nelle sue decisioni, non aveva una strategia, ha fortemente creduto in informazioni d’intelligence “errate”, ha voluto una guerra “non necessaria” – “nel 2003 Saddam non era una minaccia”, dice il report, anche se più avanti spiega che “una missione militare in futuro sarebbe stata probabilmente necessaria” –, si è affidato all’alleato americano senza spirito critico, anzi con l’illusione di poterlo condizionare – “with you, whatever”, scrisse Blair a Bush nel luglio del 2002, otto mesi prima dell’invasione. Ma Blair non ha mentito, come s’auguravano invece i tanti che aspettavano il report come una sentenza definitiva, in particolare i manifestanti rumorosissimi fuori dal Queen Elizabeth II Centre, dove il rapporto è stato presentato: il coro “Blair criminale di guerra” non si è mai fermato, pure se piano piano la consapevolezza che Chilcot “non ha crocifisso” Blair ha fatto abbassare qualche cartello di insulti.

 


Proteste davanti al Queen Elizabeth II Conference Centre (foto LaPresse)


 

La guerra, secondo Sir John Chilcot, non era necessaria, c’erano altre alternative da esplorare prima di invadere l’Iraq e questo, politicamente, è il peso più grande che Blair e gli architetti della missione contro Saddam devono sostenere. L’ex premier si è preso qualche ora dalla pubblicazione del report Chilcot per preparare la sua linea di difesa. Poi è andato davanti alle telecamere per una conferenza stampa monstre – molto tirato, con uno sfondo giallo invero poco donante – e ha ribadito la sua versione dei fatti, affrontando una per una le critiche rivolte dall’inchiesta, e ammettendo spesso errori di valutazione. Su due aspetti Blair non vuole fare un passo indietro né scusarsi: sulla necessità di rimuovere Saddam Hussein – “se ci fosse stato nel 2010, la primavera araba avrebbe colpito anche l’Iraq, e ci ritroveremmo con un’altra Siria”, ha detto, sottolineando che mai il report Chilcot immagina che cosa sarebbe successo nella regione se Saddam non fosse stato cacciato: è una ricostruzione con i “se” a senso unico – e sul fatto che non è vero che i 179 caduti britannici in Iraq sono morti invano, come invece dicono alcuni parenti che definiscono Blair “il peggior terrorista del mondo”. Blair ha ammesso che ci sono state leggerezze e che alcune opzioni avrebbero dovuto essere considerate con maggior accuratezza, ma se “non c’era fretta di andare in guerra”, c’era anche la consapevolezza che non ci fosse a disposizione molto tempo: su questo l’ex premier non riesce a dare ragione al team Chilcot, Saddam nel 2002/2003 era una minaccia pericolosa. Anche Bush, commentando in serata il rapporto, ha detto che “il mondo è un posto migliore senza Saddam”.

 

Tra tutte le leggerezze e gli errori, la “sofa diplomacy”, come la chiamano qui, è quella che più fa imbestialire ancora oggi i detrattori di Blair. Alla vigilia del report, questo era il punto più dibattuto: c’era un accordo di guerra con Bush, ci sarebbe stata l’invasione comunque? Nel report Chilcot, sono raccolte le lettere che si scambiati i due leader – soltanto quel che scrive Blair, le risposte di Bush sono private, così come i riferimenti a parole precise sono censurate, con grande scorno per l’avido lettore – che sono già state soprannominate “love letters”. Una in particolare ha attirato l’attenzione, perché c’è scritto quel “whit you, whatever” che più che una rassicurazione tra alleati sembra una dichiarazione d’amore incondizionato alla leadership di Washington (due testimoni collaboratori di Blair hanno chiesto più volte al loro capo – così hanno raccontato nelle loro sedute nella stanzina anonima senza targhetta di Whiteall adibita alle testimonianze dell’inchiesta Chilcot – di levare quel “whatever”: senza successo). In realtà leggendo quella missiva si scopre che certo, c’è il whatever, c’è la volontà di combattere insieme il terrorismo e di preparare una reazione coordinata e militare all’attentato dell’11 settembre 2001, ma ci sono anche le implicazioni politiche, oltre che militari, dell’invasione dell’Iraq. Blair faceva già allora l’elenco delle “conseguenze impreviste” di una coalizione che doveva funzionare principalmente dal punto di vista politico. L’ex premier inglese rivendica di aver cercato la via onusiana, di aver fatto pressioni sugli americani per costruire una coalizione più ampia possibile: non era un rapporto passivo, il suo, non era “il cagnolino di Bush”, com’è rappresentato ormai ovunque Blair, ma in quel contesto i tentennamenti non erano tollerabili. Alla fine del suo intervento, prima di rispondere alle domande dei presenti (e ripetere che, alle condizioni di allora con le informazioni in possesso allora, avrebbe preso la stessa decisione di allora), Blair ha guardato dritto nella telecamera per dire: “Non ho ingannato il mio paese”, basta dire che ho mentito.

 

Mentre Blair parlava, molti sostenevano che stesse “recitando”, come suo solito: una grande star con un ego smisurato, finalmente messo all’angolo politicamente da questo rapporto impietoso. L’odio che circonda Blair è straordinario, per quanto talvolta incomprensibile: i reporter più cinici che aspettavano tra i microfoni pelosi di intervistare il team Chilcot dicevano che l’ex premier non potrebbe essere percepito in modo più negativo di così, semmai questa è un’occasione per tornare a ribadire idee di mondo che sono state nel tempo stravolte.

 



 

Considerare il report Chilcot una promessa di riscatto è troppo persino per i blairiani più sfegatati, ma il senso è chiaro: un’idea sbagliata è meglio di nessuna idea. E mentre il Labour cercava di liberarsi di Tony Blair e dei blairiani una volta per tutte, ecco che se lo ritrova ovunque. Jeremy Corbyn, leader contestato del Labour, ha aspettato questo momento per poter mettere a tacere la rivolta interna e si augurava che il team Chilcot fosse ben più duro di quanto è stato. La piccola piazza fuori dal centro eventi in cui l’inchiesta è stata resa pubblica è la rappresentazione perfetta della frattura ideologica e personale del Labour britannico. Tra i cartelli contro Blair, le maschere con i ghigni feroci di Blair e Bush, le mani rosso-sangue, le banconote insanguinate, c’erano i movimenti che oggi sostengono con più forza Corbyn.

 

La Stop the War Coalition è il mondo in cui Corbyn è cresciuto e si è formato, in Parlamento era considerato l’emissario dei pacifisti, ed è con un certo orgoglio che i suoi sostenitori facevano circolare un’immagine scattata alla vigilia della guerra in Iraq, quando si dimise l’allora ministro Robin Cook in dissenso sulla missione militare: Corbyn, molto più giovane (ma tutti sembrano estremamente più giovani, e sono solo 13 anni fa), è seduto appena dietro Cook – il messaggio è la coerenza, il fatto di essere stato sempre seduto dalla parte giusta della storia. Sul micropalchetto di Stop the War creato per la protesta di mercoledì, sono saliti alcuni speaker che hanno fatto l’elenco di tutti i parlamentari che nel 2003 votarono a favore della guerra in Iraq. A ogni nome un fischio o un insulto. Per Corbyn la coerenza è l’asset oggi più forte.

 

Pochi metri più in là, dietro a un cordone di poliziotti, c’era un gruppo vociante delle “Women for Corbyn”, che intonava la litania Blair-criminale-di-guerra, e soprattutto c’era un cartello di Momentum, il gruppo di attivisti corbyniani più chiacchierato della settimana: è considerato il cane da guardia del leader laburista, l’organizzatore della campagna #KeepCorbyn, l’unico movimento in grado di portare in piazza un discreto numero di gente a favore di un capo di partito che invece in Parlamento, dopo la sfiducia della settimana scorsa (172 voti contrari, 40 a favore), è tecnicamente morto. Il governo ombra di Corbyn è collassato, i laburisti più importanti hanno chiesto con una certa insistenza a Corbyn di andarsene, ma se lui non mostra alcuna intenzione di ascoltarli, i suoi pretoriani cercano di dimostrare perché le critiche non debbano scalfire una leadership tanto solida.

 


Tony Blair con le truppe inglesi al tempo della guerra in Iraq (foto LaPresse)


 

Mai come ora circolano teorie del complotto di ogni tipo attorno al partito – nelle piazze corbyniane il complotto è tutto – al punto che alcuni parlamentari denunciano l’istituzione di un sistema di spionaggio interno, per controllarsi l’un l’altro, una Stasi governata da Corbyn per conoscere con anticipo le mosse ostili dei suoi compagni di partito. Il Canary, una rivista della sinistra alternativa, ha pubblicato un’inchiesta in cui accusa la società di pr Portland Communications di aver “orchestrato” un golpe ai danni di Corbyn attraverso i suoi tanti amici lobbisti blairiani e i contatti con i media. Alle manifestazioni a sostegno del leader del Labour, il Canary va fortissimo e la rete è piena di ringraziamenti all’autore dell’inchiesta che ha finalmente denunciato con nomi e cognomi l’atto antidemocratico in corso. In realtà di prove non è che ce ne siano tantissime, questo è un periodo in cui di pistole fumanti non se ne trovano in giro granché: la Portland Communications è stata fondata da un ex collaboratore di Blair, Tim Allan, e conta tra i suoi dipendenti membri dell’entourage dell’ex premier e anche esponenti della Fabian Society, che viene così tirata in mezzo nella teoria del complotto. Questa azienda di pr ha anche “innumerevoli contatti con i media”, come dimostra il fatto che la Bbc abbia di recente intervistato un consulente di Portland. Più o meno la denuncia è tutta qui, ma i fatti non sono importanti, basta potersi raccontare che Corbyn sarebbe un leader straordinario se solo non dovesse combattere con una Spectre blairiana che cerca di affossarlo.

 

Commentando il report in Parlamento, Corbyn si è limitato a non citare nemmeno una volta Blair, quasi per scaramanzia, e a dire che comunque per molti non cambierà la percezione che la guerra in Iraq fosse “illegale”. Soltanto nel pomeriggio, parlando alle famiglie dei soldati uccisi, ha chiesto scusa per la guerra, in nome del Labour e del suo paese, come raccontavano i retroscena della vigilia. Blair non avrà mentito, ma come riferimento politico è un po’ poco spendibile, insomma. Questa è la linea che tengono anche i leader dei sindacati, in particolare Len McCluskey, che negli ultimi giorni ha fatto la spola tra l’ufficio di Corbyn e quello del suo vice, il ribelle Tom Watson, per cercare di evitare un’implosione del partito “in stile Tory”. In realtà, i conservatori stanno andando avanti nella nomina del loro prossimo leader, e se non si può dire che il clima sia pacifico – nonostante le continue interviste rassicuranti di Theresa May, probabile prossimo premier inglese, in cui però continua a non dire di quante paia di scarpe è in possesso – certo non c’è l’atmosfera cospiratoria che si respira negli uffici di Portcullis House in cui prosegue la conta dei golpisti.

 

La determinazione non è mai stata la caratteristica principale dei “coup” del Labour, ma in questo momento la situazione è quasi paradossale. Angela Eagle, ex ministra dimissionaria del governo ombra di Corbyn, è considerata la candidata alternativa ormai da una settimana, ma gli sherpa laburisti continuano a dire che si candiderà “al momento opportuno”. Il momento opportuno pare sia quello delle dimissioni di Corbyn, che non sono previste in alcun modo, quindi l’opzione Eagle sembra non comprendere un momento opportuno. Da mercoledì ancora meno: Eagle, così come Tom Watson, il regista di questo presunto golpe, votarono entrambi a favore della guerra in Iraq, come hanno ricordato fischiandoli i sostenitori di Stop the war. La base del partito chiede coerenza prima di tutto: è su questo principio che si fonda la resistenza di Corbyn.

 

Il problema è che la possibilità di vittoria del Labour con un leader radicale come Corbyn è piuttosto bassa. Per questo alcuni parlamentari stanno addirittura tentando una causa legale per destituire il leader; per questo i big del partito si sono schierati in modo tanto netto – anche ex alleati come Ed Miliband – contro di lui. L’esito del referendum sulla Brexit ha fatto capire che la working class sta scappando dai partiti tradizionali, in tutte le direzioni. Non ci sono soltanto gli euroscettici che non hanno votato secondo quanto detto per il Labour, ci sono anche gli eurofili che non si sentono più rappresentati dal Labour: nel giro di pochi giorni, dopo lo scossone referendario, il Partito laburista è risultato poco accogliente per elettorati di diverso tipo. Non a caso i liberaldemocratici erano di nuovo attivissimi nel ricordare che sono da sempre contro la guerra in Iraq ma a favore dell’Europa, un mix che oggi non trova rappresentanza in altri partiti (se si fa eccezione per gli indipendentisti scozzesi: Nicola Sturgeon ancora una volta era due spanne sopra gli altri).

 

Non è un caso che nelle piazze che si riuniscono per sostenere Corbyn ci sia spazio per la retorica anti Blair, anti capitalismo, anti liberismo, ma si parli pochissimo di Brexit, e la differenza con le altre manifestazioni londinesi è enorme: dell’Europa, ai corbynisti, non importa nulla, importa solo questa grande scocciatura di dover pagare un prezzo per la Brexit. La questione potrebbe diventare al limite utile se collegabile a qualche malefatta blairiana: alla fine della conferenza stampa di mercoledì, a Blair è stata posta la domanda: “Se non ci fosse stata la guerra in Iraq non ci sarebbe stata la Brexit?”. Blair era a fine maratona, sembrava più rilassato, il tono umile era a tratti stato sostituito da uno più agguerrito, e per questo ha trovato la forza di rispondere con gentilezza “mi sembra che il link sia un pochino azzardato”, a ognuno la propria colpa.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi