Recep Tayyip Erdogan e Ahmet Davutoglu durante l'incontro di mercoledì ad Ankara in cui sono state decise le dimissioni del premier turco

Senza Davutoglu, ora in Turchia non ci sono più ostacoli a Erdogan

Eugenio Cau
Si dimette il premier turco, modello di potere ormai incompatibile con il presidente. Le conseguenze per l’Europa e il piano per nuove elezioni.

Roma. Il regno di Ahmet Davutoglu da primo ministro eletto della Turchia è durato meno di un anno. Ieri il premier turco, dopo una riunione avuta mercoledì sera con il presidente Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato le sue dimissioni con voce tremante in conferenza stampa, aprendo la strada per un congresso straordinario del partito di governo Akp che dovrà scegliere un nuovo leader e il suo sostituto alla guida dell’esecutivo – le due cariche, infatti, coincidono. Da mesi si parla di uno scontro, violento e sotterraneo, tra il premier e il presidente, vero dominatore della politica turca. “Ma non c’è stata mai vera gara tra i due leader. Dalle parole di Davutoglu si capisce che ha accettato la sconfitta senza combattere”, dice al Foglio Aykan Erdemir, senior fellow alla Foundation for Defense of Democracies, professore universitario e fino al 2015 membro d’opposizione del Parlamento turco con il partito Chp. “In una frase chiave, Davutoglu ha detto: ‘La fine prematura del mio mandato non è una mia scelta, ma il risultato della necessità’. Questa è la chiara ammissione che il premier ha lasciato il posto per imposizione del presidente. Oggi è iniziato il regime di un solo uomo alla guida della Turchia”.

 

“Saray Darbesi”, hanno già iniziato a chiamarlo gli analisti e i membri dell’opposizione, coup di palazzo. Non c’è stata sfiducia parlamentare per Davutoglu, che è diventato premier nell’agosto 2014 in sostituzione di Erdogan e poi è stato eletto alla carica nel giugno dell’anno scorso. “Erdogan ha deciso da solo chi doveva essere il premier e il leader dell’Akp anche se né lo statuto del partito, nel quale il presidente non ha più alcun ruolo, né soprattutto la Costituzione gli conferiscono questo potere”, continua Aykan Erdemir. “Sceglierà anche il prossimo primo ministro, che sarà uno yes-man leale a lui al cento per cento”. Secondo i media turchi, i successori più probabili potrebbero essere il ministro dei Trasporti Binali Yildirim, vecchio sodale del presidente, e Berat Albayrak, il quale – oltre che ministro dell’Energia – è anche il genero di Erdogan.

 

I dissidi tra premier e presidente hanno riguardato negli ultimi mesi molti temi, dalla guerra contro i curdi all’indipendenza della Banca centrale fino agli accordi con l’Unione europea. Ma è soprattutto nella gestione del potere che Erdogan e Davutoglu hanno rappresentato due modelli differenti e alla fine incompatibili: “Nel suo discorso di rinuncia, Davutoglu ha detto di aver cercato di rafforzare il principio di ‘un forte presidente e di un forte primo ministro’. Questo è in linea con la Costituzione ma contrario ai piani di Erdogan, che con un emendamento costituzionale vuole trasferire i poteri esecutivi al presidente. Pur rispettando la figura del presidente, il primo eletto direttamente in Turchia, Davutoglu ha cercato di far valere i suoi diritti costituzionali, ma è stato troppo debole per imporsi”. Il piano di Erdogan lo ha presentato graficamente il suo senior advisor Mustafa Akis, che poco prima della riunione che ha segnato la cacciata di Davutoglu ha twittato la foto di una scritta su carta intestata della presidenza: “Turkiye=RTE=AKP”, dove RTE sta per Recep Tayyip Erdogan. “Erdogan e l’Akp stanno trasformando la Turchia in uno stato-partito guidato da un solo uomo”, dice Erdemir. “Da tempo critichiamo l’erosione del sistema di check and balance nel paese, ma quello che è cambiato da ieri è che adesso i contrappesi mancano anche dentro all’Akp. Da oggi Erdogan è da solo al potere anche nel partito, senza Davutoglu nessuno bilancerà più il suo dominio, e questa è una ricetta per il disastro”. Davutoglu ed Erdogan condividevano la stessa idea di Turchia, ma lo spirito più liberale del premier è bastato a farlo fuori.

 

Ironicamente, la cacciata di Davutoglu è arrivata all’indomani del suo maggior successo diplomatico, la liberalizzazione dei visti Ue per i cittadini turchi in seguito all’accordo sui migranti stipulato a marzo. Davutoglu è sempre stato la faccia dialogante, il “good cop” della politica turca verso l’occidente, ma per Erdemir “questa è stata in gran parte una farsa, ed è quasi un sollievo pensare che adesso forse i politici europei capiranno meglio con chi hanno a che fare: se la democrazia turca crolla, l’Europa si troverà con una bomba a orologeria vicino casa”. Secondo il Financial Times, con la dipartita di Davutoglu adesso perfino il deal europeo sui migranti è a rischio.

 

Voci di palazzo dicono che per Erdogan il prossimo passo, dopo la nomina di un nuovo premier, saranno le elezioni, le terze in poco più di un anno. L’Akp in Parlamento non ha la maggioranza qualificata necessaria per fare le riforme costituzionali a cui Erdogan mira. Con nuove elezioni potrebbe farcela, visto che due dei quattro partiti attualmente in Parlamento, il nazionalista Mhp e il curdo Hdp, nei sondaggi sono sotto alla soglia di sbarramento del 10 per cento. “Se Erdogan riuscirà a eliminare gli ostacoli in Parlamento sarà l’ultimo chiodo sulla bara della democrazia turca”, dice Erdemir.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.