Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (foto LaPresse)

La cortina di ferro turca

Giulio Meotti
Come in Unione Sovietica, Erdogan punisce col carcere la libertà di pensiero. Scrittori, vignettisti, musicisti: nessuno è al sicuro. Trenta giornalisti oggi in carcere e 30 processati per “islamofobia”. Gli occhi puntati sull’Europa.

Roma. Nel 2006 Recep Tayyip Erdogan fece una promessa dopo il caos che seguì alla pubblicazione delle vignette su Maometto in Danimarca: “Ci deve essere un limite alla libertà di stampa”. Dieci anni dopo, la sua Turchia è un paese dove uno scoop giornalistico può costarti il carcere, come anche un cinguettio o una parola di troppo in un romanzo. E il presidente turco ci ha messo la faccia in questa guerra. Erdogan ha depositato personalmente la denuncia contro il comico tedesco Jan Böhmermann, mentre i suoi quattro figli hanno sporto denuncia contro Cumhuriyet, il giornale turco reo di avere pubblicato Charlie Hebdo. La figlia di Erdogan, Sümeyye, da vicepresidente della Women and Democracy Association, è impegnata a reprimere i diritti delle donne in Turchia, i più avanzati di tutto l’islam. Sabato una giornalista olandese, Ebru Umar, che ha ereditato su Metro la rubrica che fu di Theo van Gogh, è stata arrestata in Turchia dopo un tweet contro Erdogan.

 

La Turchia è la “più grande prigione al mondo per giornalisti”. Il più famoso è Can Dündar, il direttore di Cumhuriyet. Rischia cinque anni come Sedat Ergin, il direttore di Hürriyet. Cifre spaventose: 500 i giornalisti turchi licenziati nel 2015, 70 quelli che hanno subìto violenze fisiche, 30 quelli in cella in questo momento. La mannaia di Erdogan, per il quale “non si può essere sia musulmani sia laici, uno o è laico o è musulmano”, si abbatte ogni giorno sul web: oscura l’accesso al sito di Richard Dawkins, l’evoluzionista “islamofobo”, ma sfuggono alla sua censura i siti dello Stato islamico. E’ oggetto di persecuzione tutta l’intellighenzia turca. Come l’artista Mehmet Aksoy, passibile di 56 mesi di carcere per aver “insultato Erdogan”. Non sazio, il presidente vuole radere al suolo il suo monumento all’amicizia con l’Armenia. Erdogan ha preso di mira persino un gigante letterario come Guillaume Apollinaire, perché corrompe con le allusioni alle “amate natiche”.

 

Non è mai stata fatta luce sull’uccisione del giornalista armeno Hrant Dink, già condannato a sei mesi per gli articoli sul genocidio. L’assassino di Dink, Ogün Samast, è stato trattato come un eroe dalla polizia. E’ una umiliazione continua per l’élite culturale turca: Nedim Gürsel, autore del romanzo “Le figlie di Allah”, è stato processato perché nel Corano il concetto di “figlio di Dio” è una bestemmia; l’editore Irfan Sanci è colpevole di aver pubblicato un romanzo di William Burroughs, “La macchina morbida”; il caricaturista Musa Kart è stato processato per aver dipinto Erdogan come un gatto in un gomitolo di lana; l’archeologa Muazzez Ilmiye Cig è accusata di aver “insultato l’islam” sostenendo che l’uso del velo è antecedente a Maometto; allo scrittore Sevan Nisanyan è stata inflitta una condanna a tredici mesi per ironie su Maometto; fino al pianista di fama mondiale Fazil Say, la cui “colpa” è aver deriso il canto dei muezzin. Erdogan ha però ambizioni che superano il Bosforo: ergersi a censore dell’“islamofobia” in Europa. Per questo ha voluto la presidenza dell’Organizzazione della Cooperazione islamica, che vuole imporre all’occidente leggi contro la “blasfemia”.

 

E’ di qualche giorno fa l’annuncio di Ankara della creazione di un Islamophobia Research Center in America e in Europa. Come ha spiegato Mehmet Görmez, il capo del dipartimento religioso di Erdogan, durante l’inaugurazione del Centro Diyanet nel Maryland, “consulenti per gli affari religiosi nelle Ambasciate turche di tutto il mondo riuniranno le informazioni sugli attacchi islamofobici”. Come nel caso Böhmermann, iniziato con la denuncia di “venti privati cittadini turchi”. E’ anche il caso Ebru Umar: il 21 aprile il consolato di Ankara a Rotterdam ha chiesto ai turchi in Olanda di segnalare post offensivi verso Erdogan. “Chiediamo con urgenza i nomi e i commenti scritti di persone che hanno fatto dichiarazioni sprezzanti, denigratorie, odiose”, recita la direttiva. E’ il caso dell’orchestra sinfonica di Dresda, “addolcita” su richiesta turca all’Unione europea nella sua performance dedicata al genocidio armeno. Quando in Turchia si proietta il film “Casablanca”, viene oscurata la scena in cui Humphrey Bogart si accende una sigaretta. E’ previsto da una legge voluta da Erdogan nel 2009. La Turchia sta alzando una nuova cortina di ferro nel cuore dell’Europa. Erdogan sta rinverdendo i fasti della repressione del dissenso in Urss. Con una differenza: almeno, allora, i dissidenti erano al sicuro nel cuore di Parigi o a Berlino ovest. Oggi neppure lì.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.