Il presidente francesce Francois Hollande e il ministro francese dell'Economia Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Hollande, in disperazione elettorale, tenta la mossa no global sul Ttip

David Carretta
A Parigi anche i più liberali hanno la tentazione di “mettere in pausa” l’accordo di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti. Vertici e proteste.

Bruxelles. L’accordo di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti potrebbe diventare ostaggio di François Hollande e del suo tentativo disperato di riunire la sinistra per farsi rieleggere presidente in Francia il prossimo anno, o almeno arrivare al secondo turno. A Parigi si stanno moltiplicando i segnali di un possibile veto francese al proseguimento dei negoziati sulla Transatlantic trade and investment partnership (Ttip). E’ stato lo stesso presidente, il 14 aprile, a lanciare una prima salva: “La Francia ha fissato le sue condizioni, ha detto che se non c’è reciprocità, se non c’è trasparenza, se per gli agricoltori c’è un pericolo, se non c’è accesso agli appalti pubblici e se gli Stati Uniti possono avere accesso a tutto ciò che facciamo qui, non accetterò” il Ttip, ha avvertito Hollande.

 

Da allora, i membri del suo governo hanno moltiplicato le minacce contro quello che è diventato, per molti francesi, il nuovo simbolo dell’odiata globalizzazione, del deprecato liberoscambismo e del colonialismo yankee. Il premier Manuel Valls, malgrado l’aura liberale, si è detto “preoccupato dalla piega” delle discussioni: “Non possiamo accettare negoziati che mettano in discussione i nostri servizi pubblici, un certo numero di nostri prodotti, la nostra agricoltura, la nostra cultura”. Secondo il segretario di stato al Commercio Mathias Fekl, che ha convinto Hollande a fare del Ttip un’arma elettorale, “i negoziati non stanno andando per niente bene. Le grandi richieste francesi, come l’accesso agli appalti pubblici americani, non sono prese in considerazione”. Per Fekl, “se le cose non avanzano, bisogna pensare a bloccare”.

 


I primi ministri Mariano Rajoy, Matteo Renzi, François Hollande, il presidente Barack Obama, il primo ministro David Cameron, la cancelliera Angela Merkel, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker durante l'incontro sul Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) in Brisbane, Australia, nel 2014


 

Lunedì si apre a New York il tredicesimo round tra il rappresentante al Commercio americano, Micheal Frooman, e la commissaria europea, Cecilia Malmström. Le scadenze elettorali dei prossimi mesi – il referendum sulla Brexit del 23 giugno, le presidenziali americane a novembre, quelle in Francia ad aprile-maggio 2017 e le politiche in Germania nell’autunno successivo – consigliano di accelerare. Il vento protezionista soffia sempre più forte su entrambe le sponde dell’Atlantico e minaccia la “Nato del commercio” immaginata da Angela Merkel e George W. Bush nel lontano 2007. In Germania, i socialdemocratici tedeschi si mostrano sempre più ostili. In America, anche se con accenti diversi, Hillary Clinton e Donald Trump denunciano gli accordi commerciali. Tutti guardano agli umori delle rispettive opinioni pubbliche. Secondo un sondaggio uscito ieri della Bertelsmann Stiftung, solo il 17 per cento dei tedeschi considera il Ttip “una buona cosa”, contro il 55 per cento favorevole all’accordo due anni fa. In America i risultati sono ancora più scoraggianti: il 15 per cento vede l’accordo di libero scambio con l’Ue come positivo. A Hannover, dove si riunisce il G5 transatlantico formato da Obama, Merkel, Cameron, Renzi e Hollande, lunedì sono attesi 50 mila manifestanti anti Ttip.

 

Il malcontento francese già pesa sui negoziati. Questa settimana Malmström ha detto che è “possibile” chiudere le trattative entro il 2016, ma solo se porteranno a un “buon accordo”. Altrimenti – ha spiegato la commissaria – sarà necessaria una “pausa”. Secondo diversi analisti, sarebbe una scelta rischiosissima, che alla fine potrebbe portare all’affossamento definitivo dei negoziati. Eppure lo scenario è stato evocato anche dalla nuova stella della politica francese, il ministro dell’Economia Emmanuel Macron, che come Valls ha fama di liberale pro global. Il Ttip “in principio è una cosa buona” e “non è morto”, ha detto Macron a Politico. Ma la “tattica” americana è di dire “ragazzi, dovete accettare qualche compromesso se volete finire” prima delle presidenziali americane. Secondo Macron, “sarebbe un errore”. A comandare è la realpolitik elettorale: i sondaggi dicono che Hollande sarà eliminato al primo turno delle presidenziali.

 


Emmaule Macron (foto LaPresse)


 

Secondo gli strateghi dell’Eliseo, schiacciare il bottone “pausa Ttip” permetterebbe a Hollande di ricompattare la sinistra anti liberale del Partito socialista, riconquistare la nebulosa no global dell’estrema sinistra e magari strappare qualche voto a Marine Le Pen sbattendo la sovranità della Francia in faccia all’Ue e a Washington. Ma i precedenti non sono di buon auspicio per Hollande: nell’ottobre 1998 l’allora primo ministro, Lionel Jospin, annunciò che la Francia lasciava il tavolo dell’Accordo multilaterale sugli investimenti negoziato tra i paesi Osce in nome della sovranità nazionale. Meno di quattro anni dopo, il 21 aprile 2002, Jospin lasciò la corsa presidenziale battuto da Jean-Marie Le Pen, padre di Marine.