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Vecchietto, moderato e commosso, ecco il giudice supremo scelto da Obama

Paola Peduzzi
Merrick Garland, la corte, e i repubblicani in rivolta

Sessantatré anni, l’aria tranquilla, la voce rotta non appena prende la parola, nel Rose Garden della Casa Bianca, con il sole negli occhi, la sua famiglia lì davanti e il presidente degli Stati Uniti al suo fianco. “E’ l’onore più grande della mia vita – ha detto Merrick Garland, appena nominato da Barack Obama come giudice della Corte Suprema – Dopo che Lynn ha accettato di sposarmi 28 anni fa”, e ha sorriso commuovendosi. Garland, scelto da Obama per sostituire Antonin Scalia, morto di infarto a febbraio, alla Corte Suprema degli Stati Uniti, ha il profilo da moderato che il presidente andava cercando per convincere i repubblicani a ristabilire nove giudici nella Corte, prima della fine del suo mandato, durante quest’anno elettorale così turbolento e nervoso. Per il momento l’offensiva del compromesso non gli è riuscita: il capo dei conservatori al Senato, Mitch McConnell, ha già detto di non voler fare le audizioni, “è una questione di principio, non di nomine”, e il principio è: il popolo americano, eleggendo il suo prossimo presidente, deciderà anche chi sarà il giudice della Corte suprema, non può farlo Obama a fine mandato. Paul Ryan, speaker della Camera, gli ha dato ragione, mentre Hillary Clinton, staccandosi dai festeggiamenti per la nottata elettorale trionfante, ha dichiarato: “Il Senato dovrebbe prendere in considerazione la nomina immediatamente”.

 

La questione è stata ampiamente dibattuta nelle settimane successive alla morte di Scalia, e i media sono pieni di resoconti del passato, faide antiche che tornano attualissime, con le statistiche che dicono che di otto giudici presentati durante anni elettorali sei sono stati confermati. Oggi i liberal sostengono che un anno con soltanto otto giudici, e quindi la possibilità di un pareggio e di un dibattito monco, potrebbe essere pericoloso, i repubblicani rispondono: corriamo questo rischio, ma un altro giudice supremo questo presidente non lo nominerà. Tutt’attorno la campagna elettorale si colora di commenti e di prese di posizione che riflettono le appartenenze ideologiche, mentre qualcuno inizia a chiedersi se non sia il caso di accettare il “moderato” di Obama per non rischiare una scelta che sarà invariabilmente più liberal nel caso alla Casa Bianca dovesse andare un democratico.

 



 

Merrick Garland è stato nominato al D.C. Circuit, considerato l’anticamera della Corte Suprema, nel 1997 da Bill Clinton, è diventato il capo delle Corti d’appello qualche anno fa, è considerato una mente brillante, con grande esperienza e con grandi capacità di dialogo e di negoziato (è anche amico di John Roberts, che della Corte Suprema è il presidente). Il nome di Garland era finito nella rosa dei nominabili anche in passato, quando Obama aveva dovuto mettere mano alla composizione della Corte, ma il fatto di essere sempre stato scartato pare che non l’abbia scalfito, anzi per lui anche quello, dicono i suoi amici, era stato un onore. Con una carriera tanto lunga, le possibilità di trovare pretesti per affossare la sua nomina sono alte (anche i liberal che oggi festeggiano per partito preso in realtà troverebbero da ridire su alcune decisioni di Garland), ma per il momento la linea è quella del rifiuto totale.

 

Intanto, quel che si può dire è che con questa nomina i desideri dello stesso Scalia non sono stati del tutto rispettati. Senza addentrarsi nelle filosofie che ispirano i giudici conservatori e liberal della Corte Suprema, Scalia scrisse nel 2015, nella celebre opinione in dissenso sulla sentenza a favore dei matrimoni gay, che la Corte non è rappresentativa del paese, e quindi non dovrebbe avere il diritto di legiferare in nome del paese: sono scelti soltanto giudici che hanno studiato da Harvard o Yale, che sono ebrei o cattolici, e che provengono dalle coste, est o ovest che siano (tanto sono entrambe liberal). Garland ha studiato ad Harvard e poi alla scuola di legge di Harvard, è ebreo, ma non viene dalla costa: è di Chicago, come Obama (e Hillary).

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi