Cosa dimentica Obama nella sua diagnosi su Trump

Come si conviene, Barack Obama non ha citato Donald Trump per nome nella sua tirata dell’altro giorno, a Capitol Hill, contro “la recente retorica divisiva e volgare in un angolo della politica”, che rischia di “infettare l’intera società”.

New York. Come si conviene, Barack Obama non ha citato Donald Trump per nome nella sua tirata dell’altro giorno, a Capitol Hill, contro “la recente retorica divisiva e volgare in un angolo della politica”, che rischia di “infettare l’intera società”, quegli attacchi contro “le donne e le minoranze, e contro tutti gli americani che non ci somigliano, non pregano o non votano come noi”. Non c’era bisogno di proseguire oltre nel processo di esplicitazione. Il presidente aveva già condannato in precedenza il parlare rabbioso di quello che, lui ne è convinto, non sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, ma ha aggiunto due osservazioni interessanti per afferrare le sue idee sul trumpismo montante. Prima osservazione: “L’animosità alimenta animosità”. Seconda: “E’ un ciclo elettorale che non riflette in modo veritiero l’America”. Detto altrimenti: Trump è un elemento spurio, e il suo antagonismo esasperato è la causa della malattia che il paese sta attraversando.

 


Donald Trump (foto LaPresse)


 

Ma siamo proprio sicuri? Si potrebbe anche costruire una teoria contraria. Trump è campione d’animosità, su questo ci sono pochi dubbi, ma un suo sostenitore potrebbe dire (e dice) che si tratta di una reazione al politicamente corretto, alla dittatura del non detto che va dalla censura dei libri accademici per non urtare la sensibilità degli studenti fino alle microaggressioni, all’eliminazione dei “master” dai campus, figure che portano nel nome i segni di un passato di schiavitù non da elaborare ma da rimuovere. Woodrow Wilson è sotto processo a Princeton, la Costituzione è scivolosa perchè molti di quelli che l’hanno scritta erano proprietari di schiavi, nemmeno l’aiutante nero di Santa Claus è al di sopra di ogni sospetto. Lo choc retorico e linguistico, potrebbe dire (e dice) il sostenitore di Trump, non è che la reazione a una mentalità che impone di non dire ciò che in molti pensano. E così non è solo l’animosità che genera animosità, ma c’è anche la possibilità che a generarla, l’animosità, sia un silenzio eccessivamente rispettoso, che sa di autocensura. E – secondo problema – cos’è più americano, rispettare l’altro togliendo la parola “negro” da Huckleberry Finn oppure dirsi le cose come stanno per onorare la “land of the free”? Nessuna delle soluzioni del dilemma giustifica le intemperanze di Trump, ma mettere a fuoco il sintomo non equivale ad azzeccare la diagnosi.

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