Caccia all'uomo in America, le spie cinesi stanno esagerando

Daniele Raineri
C’è un programma ufficiale cinese che si chiama “Caccia alla volpe” per costringere a tornare in patria i ricercati all’estero per reati economici. “Sono come aquiloni, volano lontani ma un filo li tiene attaccati alla Cina: la famiglia”. Ma l’operazione ha un lato oscuro e clandestino

Roma. La Casa Bianca chiede al dipartimento di stato di inoltrare un ammonimento ufficiale al governo cinese  perché le attività delle spie di Pechino sul territorio americano stanno passando il limite. L’ammonimento è a tutti gli effetti una misura drastica, perché il presidente cinese Xi Jinping arriva per la prima volta in visita a Washington il mese prossimo e adesso il clima è ufficialmente incrinato; e anche perché i due paesi sono impegnati da sempre in una guerra di spie e fino a ieri lo avevano fatto tenendosi dentro i limiti della tollerabilità reciproca, senza minacciare di fare saltare le relazioni diplomatiche. Ora qualcosa si è rotto.

 

Il New York Times, che segue con attenzione questa sfida tra Washington e Pechino, ieri è uscito con un pezzo sulle attività sotto copertura dei cinesi in America – e un giornale rivale, il Wall Street Journal, ha raddoppiato con un articolo pieno di altre informazioni sulla stessa questione.

 

L’anno scorso il governo cinese ha lanciato un programma chiamato “Caccia alla volpe” per riportare in patria tutti i ricercati che sono fuggiti all’estero per evitare una gamma di accuse che vanno dalla corruzione ai reati politici – anche se a livello ufficiale si parla soltanto di reati economici, i dissidenti sono lasciati fuori. La Caccia alla volpe è un format prediletto dai media cinesi, che seguono con entusiasmo il ritrovamento di latitanti corrotti in tutto il mondo e il loro rimpatrio – almeno 930 casi finora – e il recupero talvolta delle ricchezze illecite. Il messaggio che autorità e media vogliono sottolineare è: inutile andare all’estero, vi troveremo. Da aprile gli Stati Uniti hanno accettato di collaborare con questo programma, riconoscendo un accordo non vincolante con la Cina per rintracciare i fuggitivi. Pechino ha consegnato una lista di quaranta persone. Qui sono cominciati i problemi. La lista contiene soltanto nomi di basso livello e le agenzie che controllano le attività cinesi – sono due: Fbi e dipartimento di Sicurezza nazionale – sanno che in America ci sono persone assai più importanti per la Cina. Eppure non sono dichiarate su quella lista. E Pechino non risponde se non di rado a una richiesta preliminare americana, che è quella di avere prove sulle attività criminali dei ricercati in America.

 

Le fonti nel governo del New York Times dicono che ci sono agenti cinesi sotto copertura che entrano negli Stati Uniti non come funzionari del governo cinese, ma con il pretesto di fare affari o di studiare, e danno la caccia ai rifugiati. Una operazione Caccia alla volpe allargata rispetto a quella ufficiale e clandestina. Quando gli agenti sotto copertura trovano i ricercati usano “tattiche aggressive” per convincerli a tornare indietro. E’ questo che probabilmente ha fatto scattare l’ammonimento. Non è spiegato come fanno, ma quattro giornalisti del Wall Street Journal hanno rintracciato un cinese finito in mezzo alla caccia e si sono fatti raccontare che cosa succede quando arrivano gli agenti di Pechino. L’uomo si chiama Tommy Yuan, è in America dagli anni Novanta, insegna matematica in Texas e un giorno, prima della lezione, è stato avvicinato da altri due cinesi: “Uno flaccido con il riporto e un altro, massiccio, che sembrava più un uomo d’azione e che sapesse come si fa a combattere”. I due gli hanno domandato dove fosse Ling Wancheng, un cinese che convive con la ex moglie di Yuan in una comunità isolata in California e sotto falso nome. “Diccelo – gli hanno detto – se vuoi proteggere tua moglie”. Secondo le fonti americane sono due membri del ministero della Pubblica sicurezza, l’agenzia cinese che si occupa dell’operazione Caccia alla volpe.

 

[**Video_box_2**]Il ricercato Ling non è accusato di nulla, ma è il fratello di un potente consigliere politico cinese che lavorava come assistente particolare dell’ex presidente cinese, Hu Jintao, e che ora è caduto in disgrazia, accusato di corruzione, adulterio e di essersi procurato illegalmente segreti di stato. Il governo di Pechino teme che il consigliere abbia passato al fratello informazioni sui leader cinesi più importanti e lui  dal 2013 – o dal 2014, non è ancora chiaro – è venuto a vivere in America. La catena è questa: il consigliere politico dell’ex presidente viene colto mentre si procura segreti di stato, i cinesi vengono a sapere che ha un fratello volato via in America, sanno che convive con una donna, rintracciano l’ex marito della donna e lo minacciano per farsi dire dove si trova la coppia. E questo è soltanto un caso, anche se è quello con il maggior potenziale di recare danno alle relazioni fra i due paesi. Ling è scomparso da ottobre. Se riappare e chiede asilo politico e quindi la protezione ufficiale del governo americano, la Cina considererà la cosa come un attacco politico. Le agenzie americane coinvolte e anche quelle cinesi, i servizi segreti americani più i ministeri degli Esteri di entrambi i paesi non hanno commentato le richieste di informazioni dei due giornali.

 

Rotta di quasi collisione

 

A novembre un capitano della polizia cinese ha spiegato così in un’intervista l’approccio ai ricercati cinesi all’estero: “Sono come aquiloni che volano, anche se sono all’estero c’è un filo che li tiene in Cina. Possono essere sempre trovati attraverso la famiglia”. Tuttavia, questa vicenda delle minacce a conoscenti e famiglie in America, unita ad altri elementi di tensione come i casi catastrofici di intrusioni informatiche nei computer del governo da parte di hacker cinesi, e la svalutazione improvvisa dello yuan, sta facendo prendere alle relazioni tra i due paesi una rotta di quasi collisione.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)