I palazzi di Riverside Plaza sono la Ellis Island della comunità somala, luogo di passaggio in attesa di un futuro migliore. Ufficialmente ci vivono quattromila persone, in realtà sono circa diecimila

Dentro il primo Califfato d'America

Il jihad per riempire la vita vuota e progressista di Minneapolis

Come si convive con l’islam fondamentalista? Immersione nella più grande comunità della diaspora somala del mondo, dove i ragazzi partono a decine per unirsi alle forze di al Baghdadi. Una culla di complottisti da Starbucks e giovani in crisi d’identità che guardano di traverso il sogno americano. Il dibattito su sicurezza nazionale e diritti civili messo a nudo. Inchiesta

- E tuo figlio? Aveva la possibilità di un futuro di successo davanti a sé. Sai cosa l’ha spinto ad andarsene da Minneapolis per ritornare in questo luogo desolato?
- Mi piacerebbe saperlo, mormorò Ahl.

Nuruddin Farah, “Crossbones”

 

Minneapolis, dal nostro inviato. Non fosse per le finestre gialle, rosse e blu i palazzi di Riverside Plaza sarebbero indistinguibili dagli incolori colossi di cemento che affollano le periferie delle metropoli occidentali, sacche di emarginazione e povertà, conseguenze architettoniche di politiche d’integrazione concepite male e attuate peggio. Negli Stati Uniti la legge dello sviluppo urbano funziona tendenzialmente al contrario rispetto all’Europa: il sogno americano con tagliaerba e barbecue si realizza nelle cinte suburbane, il centro città è lo sfondo degli incubi della disintegrazione, perciò non stupisce che Riverside Plaza, il cuore del quartiere Cedar-Riverside, sia a due passi dalla downtown di Minneapolis. Attraversando la città in macchina è impossibile non notare lo stagliarsi vagamente sinistro dei torrioni colorati. La chiamano “Little Mogadiscio”, oppure soltanto “West Bank”, perché sorge proprio sulla riva occidentale del fiume che divide Minneapolis e St. Paul, le Twin Cities, ed è stata per molti anni la Ellis Island della diaspora somala, approdo temporaneo dei rifugiati dalla guerra civile in attesa di essere smistati verso un futuro migliore. I palazzoni sono diventati poi un insediamento stabile dei somali e attorno a questa specie di quartier generale è cresciuto un pezzo di Corno d’Africa perfettamente omogeneo e monoculturale, i bianchi che lo attraversano sono hipster attratti dall’esotico o poliziotti in borghese perfettamente riconoscibili. Cedar-Riverside è un rumoroso e pittoresco quartiere africano installato al centro della città che figura ai primissimi posti in tutte le classifiche sulla qualità della vita, un trionfo di reddito pro capite e vivibilità.

 

Ci sono le botteghe di frutta secca e tè, i caffè dove gli uomini discutono a voce alta, gli anziani con i capelli tinti con l’henné riveriti da tutti per il ruolo prominente che ricoprono nel microcosmo locale. Tutti fanno riferimento agli anziani per gli aspetti fondamentali della vita: sono loro che celebrano i matrimoni, sistemano le dispute fra famiglie e fra clan, dispongono dei risarcimenti e delle multe all’interno della comunità; tutto è regolato da un codice di condotta interno che mischia il tribale e il religioso. Nella partita dell’organizzazione sociale interna, le autorità civili non toccano palla. I dati del Census Bureau dicono che a Riverside Plaza abitano quattromila somali, ma nessuno ci crede. Così come nessuno crede che in Minnesota ci siano soltanto 33 mila immigrati somali. Compilare il modulo del censimento è tecnicamente obbligatorio, ma difficilmente la polizia va in un quartiere del genere a perseguire chi non rispetta le norme della burocrazia.

 

Se ci si mette poi che chi vive lì non ha sperimentato che corruzione e violenza da parte dello stato nel paese natale, si capisce facilmente che la fiducia nelle istituzioni non è moneta corrente fra i somali di Minneapolis. La stima fatta da un gruppo di ricercatori della University of Southern California in uno studio finanziato dal dipartimento della Sicurezza nazionale dice che nei palazzi con le finestre colorate abitano circa diecimila somali, oltre il doppio di quelli che potrebbero legalmente contenere. Da quelle finestre vedono le lamiere piegate del museo disegnato da Frank Gehry, lo stadio dei Vikings in costruzione, lo skyline scintillante di downtown, vedono la cosa più vicina alla socialdemocrazia scandinava che l’America abbia concepito, un gran progetto sociale nel profondo nord fatto di piste ciclabili, materiali riciclati e gare di cortesia, un paradiso welfarista dove i trasporti pubblici funzionano a meraviglia e gli abitanti non si vergognano di dirlo. Nelle circoscrizioni urbane il partito democratico sfonda regolarmente il 70 per cento a ogni elezione presidenziale, e l’impatto minimo della crisi economica non ha fatto vacillare la vocazione borghese di un popolo in forma e open minded. Dalle finestre colorate i somali rifugiati hanno visto il possente squadernarsi del sogno americano nella sua versione più nordica e progressista, e lo spettacolo non è piaciuto a tutti. Così questo pezzo della diaspora somala finito in una città dove la temperatura media a gennaio è nove gradi sotto zero si è aggrappato all’appartenenza nazionale e al credo islamico per ricomporre un’identità spezzata, un fertilizzante potente per il terreno in cui si muovono circospetti i reclutatori globali del jihad. Nel 2007 Minneapolis è finita sotto l’occhio dell’intelligence americana per la prima ondata di americani che si univano ad al Shabab, il franchising somalo di al Qaida. Viene da qui il primo attentatore suicida americano, Shirwa Ahmed, che nell’ottobre del 2008 si è schiantato su un edifico governativo del Puntland con un’auto zeppa di esplosivo. Gli altri americani che hanno seguito le sue orme nei mesi successivi erano quasi tutti cresciuti in Minnesota. Douglas McCain, il primo americano ucciso mentre combatteva con lo Stato islamico, aveva studiato a New Hope, non lontano da Minneapolis. Oltre cinquanta somali del Minnesota si sono uniti alle forze di al Shabab, alcuni sono stati uccisi in battaglia, altri hanno scelto la via del martirio con attacchi suicidi, altri ancora sono stati epurati nella grande faida interna contro i foreign fighters che ha investito anche Abu Mansur al Amriki, pilastro dell’organigramma del gruppo cresciuto in Alabama e occasionale rapper a scopo propagandistico. La notizia non è mai stata confermata da fonti indipendenti, ma i leader di al Shabab dicono che c’erano anche tre miliziani venuti dal Minnesota nel commando che nel 2013 ha assediato il Westgate Mall di Nairobi, uccidendo 67 persone. Era la prima ondata migratoria verso il jihad, in qualche modo giustificata dall’invasione delle truppe della cristiana Etiopia in Somalia, sostenute dagli Stati Uniti. Hassan Jamici, imam di una moschea di St. Paul di recente ha ricordato che “il jihad contro l’Etiopia quando ha invaso il nostro paese era obbligatorio, se qualcuno avesse ancora qualche dubbio”. La chiamata di Osama Bin Laden aveva riecheggiato con forza in un luogo dove un paio di generazioni di somali consumano, talvolta controvoglia, il matrimonio combinato fra l’islam e l’occidente: “Chiedo alla nazione islamica della Somalia di rimanere nel nuovo campo di battaglia dove i crociati dell’America e delle Nazioni Unite hanno dichiarato guerra all’islam e ai musulmani. Tendete imboscate, piazzate mine, fate incursioni e attacchi suicidi fino a quando non li avrete consumati come il leone divora la sua preda”.


Nel quartiere di Cedar-Riverside vive la maggioranza dei somali del Minnesota. In questo misto di opere di carità e cultura progressista hanno trovato il luogo adatto per stabilirsi


“Poco dopo la chiamata militare dei somali di tutto il mondo per combattere le truppe etiopi, si è trasformata in una chiamata religiosa, e a quel punto al Shabab ha giurato fedeltà ad al Qaida. Noi qui conosciamo al Shabab fin dalla sua infanzia, ma in quel momento le cose sono cambiate radicalmente”, mi racconta l’agente speciale dell’Fbi Kyle Loven. Lo incontro nella lobby della sede dell’Fbi di Minneapolis, preferisce questo spazio elegante al suo ufficio, che immagino cinematograficamente piene di fotografie e mappe attaccate al muro, stile “Homeland”. Loven declina le domande su casi specifici, ma spiega che il cambio di fisionomia del jihad, con il rimescolamento delle alleanze attorno al perno dello Stato islamico, sta dando parecchio da fare anche qui a Minneapolis. “Ora lo scopo di al Shabab in Somalia è di stabilire uno stato islamico guidato dalla sharia, che diventerà infine parte del Califfato, quindi c’è una sovrapposizione di temi, motivazioni e anche di profili”, dice.

 

Quando il brand dello Stato islamico si è affermato a suon di conquiste militari e brutalità e Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato la nascita del Califfato, i somali radicalizzati del Minnesota hanno improvvisamente abbandonato i propositi, vagamente tinti di nazionalismo, di unirsi alla lotta per la madrepatria e hanno iniziato a tentare la difficile attraversata verso la Siria e l’Iraq. Questa seconda ondata ha scompaginato i calcoli delle autorità, che per anni hanno lavorato alacremente, con qualche successo, per decrittare il processo di reclutamento, individuare i profili a rischio, creare una rete di informatori affidabili, tracciare i flussi di finanziamenti e tenere sotto controllo le moschee che surrettiziamente diffondevano il verbo dell’islam radicale. Il Califfato ha riattivato le pulsioni radicali di giovani islamici fino a quel momento rivolte esclusivamente alla patria, e poco importa se quella terra per molti di loro era soltanto un lontano e infelice ricordo d’infanzia. L’adesione delle nuove reclute allo Stato islamico ha ulteriormente innalzato il livello di allerta in città. Assieme a Boston e Los Angeles, Minneapolis è il pezzo d’America con la più alta concentrazione di forze antiterrorismo e il dipartimento della sicurezza nazionale ha lanciato in queste tre città una controffensiva pilota che va sotto il nome di “Countering Violent Extremism”. Seguendo le direttive della Casa Bianca, a metà maggio è stata istituita una task force composta da quindici leader della comunità somala per capire meglio i motivi per cui decine di ragazzi cresciuti in America e instradati verso la prospettiva della middle class mollano tutto per rispondere alla chiamata del jihad. La task force collabora con il procuratore federale Andrew Luger, l’uomo che sta cambiando la strategia per contrastare il terrorismo in città, e la prima dichiarazione pubblica del gruppo è stata: lavoriamo con Luger, non per Luger. Per sottolineare il bel clima sereno di collaborazione, alcuni somali contrariati dalla scelta dei membri hanno subito costituito una task force parallela.

 

Per capire quanto è pervasiva la presenza delle forze dell’ordine basta pensare che accanto a una squadra investigativa dell’Fbi agisce nell’ombra un secondo team di esperti di intelligence militare, capitanato da una leggenda del Bureau, Harry Samit. Nel 2001 un istruttore di volo di una scuola del Minnesota gli ha segnalato la presenza nel suo corso di un allievo di nome Zacarias Moussaoui. Aveva un atteggiamento strano. Il 16 agosto Samit ha arrestato quello che sarebbe stato il ventesimo dirottatore dell’11 settembre e da quel momento l’agente speciale ha ingaggiato una battaglia furibonda con i suoi superiori per ottenere un mandato di perquisizione sul computer di Moussaoui, convinto com’era che fosse solo un ingranaggio di un meccanismo terroristico molto più grande. Dopo oltre settanta richieste negate, il 10 settembre 2001 Samit ha scritto in una mail: “Voglio disperatamente entrare nel suo computer, farei qualunque cosa”. Anche la tragedia dell’11 settembre passa in qualche misura per Minneapolis.

 

Tecniche di comunicazione

 

Negli ultimi due anni più di venti ragazzi sono partiti dal Minnesota per unirsi al jihad in Somalia e Siria, e quattro sono stati arrestati poco prima di partire. In aprile l’Fbi ha fermato altri sei somali fra i diciannove e i ventun anni che stavano tentando di imbarcarsi due diversi voli per la Turchia, per poi varcare il confine siriano con l’aiuto di un network di minnesotiani in loco. Due di questi, Mohamed Abdihamid Farah e Abdirahman Yasin Daud, sono stati arrestati a San Diego, in California, mentre cercavano di andare in Messico, dove un loro complice avrebbe dovuto provvedere passaporti falsi, necessari dal momento che i due erano già stati bloccati in precedenza all’aeroporto di New York con un biglietto sospetto per la Grecia. A Minneapolis sono stati arrestati Adnan Abdihamid Farah, Hanad Mustafe Musse, Guled Ali Omar e Zacharia Yusuf Abdurahman. Un fratello di Omar era partito per la Somalia nel 2007, e da allora di lui non si hanno notizie certe. Si tratta del più grande arresto di aspiranti jihadisti sul suolo americano, successo dell’antiterrorismo al termine di un’inchiesta di dieci mesi che apre però una serie di domande su cosa sta succedendo esattamente in Minnesota, in questa delicata fase di passaggio della militanza islamista a livello globale. Le carte del processo descrivono gli arrestati come ragazzi perfettamente normali, sei fra le decine di milioni di immigrati in America che tentano di scalare la piramide sociale nella terra delle opportunità. Alcuni di loro erano iscritti al Minneapolis Community and Technical College, uno voleva diventare un infermiere, uno studiava informatica, altri due erano orientati alle discipline umanistiche. Hanno usato i soldi del finanziamento pubblico per la retta universitaria per comprare i biglietti aerei. Sono stati incauti e talvolta maldestri nel pianificare i dettagli del viaggio e nel gestire le comunicazioni, ma la volontà di partire era incrollabile. Hanno barattato un progetto di vita stabile e promettente per un’iniziativa che molto probabilmente sarebbe sfumata prima ancora di salire su un aereo per l’Europa. Ma qui il successo dell’operazione non è quello che conta: “L’identità americana è morta. Anche se mi beccano, pazienza, sono stufo dell’America. Brucia la mia carta d’identità”, diceva uno di loro.


In questo quartiere, nel cuore di Minneapolis, tutti conoscono almeno una persona che ha tentato di unirsi al jihad in Somalia o in Siria


Comunicavano soprattutto tramite Kik, app canadese che non mantiene copia delle conversazioni nei server, ma a far crollare il piano è stato un settimo aspirante jihadista del gruppo che ha deciso di smarcarsi dall’operazione e di raccontare tutto all’Fbi, che a quel punto ha messo sotto strettissima osservazione questi improvvisati miliziani che con la strafottenza dei loro vent’anni facevano minacce di questo tenore a un agente federale: “Se non c’è una via di fuga, dico, se abbiamo le spalle al muro uccido quel tizio che mi dà noia. Lo sai di chi parlo. Tutti sanno chi è quell’agente che tu conosci. Lui è il nostro uomo, quel negro culone”. Il nome dell’agente è cancellato, ma loro sapevano benissimo chi era, tutti nella comunità hanno un fiuto eccezionale per i federali. I sei erano in contatto con un coetaneo di nome Abdi Nur, un giovane che voleva fare l’avvocato e invece l’anno scorso è finito in Siria con l’Ak-47 in una mano e un computer nell’altra, per attirare nella rete del Califfato i suoi vecchi amici di “mpls”, abbreviazione social friendly di Minneapolis.

 

Prima di partire, Nur e il suo amico Abdullahi Yusuf (che è stato preso prima di riuscire a imbarcarsi: merito di un inserviente dell’ufficio passaporti che ha fatto due più due) si sono radicalizzati nel giro di pochi mesi, hanno preso a indossare vestiti tradizionali e a parlare arabo frequentemente, nei loro profili online hanno trovato materiale riconducibile al sottobosco jihadista e l’immancabile effigie di Anwar al Awlaki, imam yemenita nato nel New Mexico che ha ispirato decine di terroristi americani “homegrown”, anche dopo che la Cia lo ha fatto saltare in aria con un drone. “Chi ti ha fatto il lavaggio del cervello?”, gli ha chiesto un ex compagno di classe in un forum online, preoccupato dal materiale che postava. “La parola di Allah, il Corano, mi ha fatto il lavaggio del cervello”. La discesa di Nur e Abdullahi – e di conseguenza dei sei compari – negli inferi internettiani del jihad coincide anche con la frequentazione di una nuova moschea, Dar al Farooq, nel sobborgo di Bloomington.

 

Un altro indizio si trova leggendo fra le righe delle carte che hanno portato i sei dritti in carcere a un anno di distanza dai due apripista. C’è scritto che il padre di uno di loro qualche volta lo accompagnava in macchina di fronte alla Heritage Academy, una scuola frequentata da molti ragazzi del giro, e lui andava a piedi davanti a “una moschea nei dintorni”, dove incontrava gli amici cospiratori. C’è soltanto una moschea nei dintorni di quella scuola, precisamente Dar al Farooq. Non è però la sede centrale di Bloomington, ma un suo distaccamento minore nel centro della città. Una persona molto conosciuta nella comunità somala ma che chiede di non essere citata per nome dice che “Dar al Farooq è la moschea che ha traghettato le reclute locali da al Shabab allo Stato islamico”.

 

[**Video_box_2**]Altre fonti riportano la stessa voce, ma nessuno degli intervistati vuole parlarne apertamente. Gli avvocati della moschea negano qualunque ruolo nella vicenda, negli ultimi mesi hanno allontanato un paio di mele marce che orbitavano lì attorno e hanno intensificato i sermoni in inglese contro lo Stato islamico. Sul sito della moschea ora si trovano appassionate invettive contro gli attentati alla redazione di Charlie Hebdo e dure condanne alle nefande gesta di Baghdadi. La versione delle autorità è ancora diversa e può essere riassunta così: la moschea è un luogo di ritrovo, un ambito sociale, e come tale offre occasioni per fomentare e irretire giovani che non si sono mai adattati del tutto alla vita americana.

 

Il fatto inedito, dicono, è che ormai questi ragazzi si reclutano a vicenda, diffondono il loro messaggio orizzontalmente, il Califfato del Minnesota non ha bisogno di eminenze grigie e sceicchi che orchestrano nell’ombra e bisbigliano ordini ricevuti dall’alto. Bastano i social network, video ben prodotti e profilati e un’aggregazione di coetanei confusi che si spalleggiano per decidere di andare “on the other side”, come dicono qui, una formula liquida e millennial che ricorda più la dinamica di espansione di una gang che la tradizionale opera di reclutamento del jihad.

 

Dopo l’arresto dei sei, il procuratore Luger ha pronunciato la formula che ora è sulla bocca di tutti: “reclutamento peer-to-peer”. L’agente Loven dice che la prima ondata di arruolamenti era un “ground game”, cioè “c’erano persone sul campo che cercavano di radicalizzare i giovani qui”. E’ noto, ad esempio, che agli albori di al Shabab la moschea di Abubakar As Sadique era la cassa di risonanza del messaggio del jihad somalo, e da lì il richiamo si propagava in tutto lo stato. “Era una situazione pessima – continua Loven – ma riuscivamo a controllare questi movimenti. Ora è il momento dei social media, il che rende tutto più problematico per noi, significa che per radicalizzare qualcuno non devi necessariamente essere qui a Minneapolis”. Difficile in questo meccanismo orizzontale tracciare un profilo del potenziale miliziano: “Più si va avanti più è difficile capire su chi questo tipo di propaganda può fare effetto. E, credimi, l’Fbi è piuttosto brava nel mettere insieme profili e individuare trend di comportamento”. L’indecifrabilità del processo di radicalizzazione è uno degli aspetti che preoccupa di più gli agenti dell’antiterrorismo; il secondo è la presenza ormai stabile sul campo di battaglia di minnesotiani che facendo leva sul background comune possono più eficacemente raggiungere i loro compagni in America.

 

Il più noto fra questi è un venticinquenne di nome Muhammed Abdullahi Hassan, conosciuto online e al fronte come Mujahid Miski, che ha lasciato Minneapolis per la Somalia nel 2008. Miski è un propagandista eclettico, e perciò efficace, usa varie piattaforme per propagare messaggi a diversi livelli. Quasi tutti sono perfettamente tagliati sul profilo dei suoi vecchi amici che, opportunamente invogliati, un giorno potrebbero decidere di raggiungerlo. Dice che nel jihad non c’è stress, non si pensa troppo, non ci sono preoccupazioni né ansia, un elenco di patologie tipicamente occidentali rintracciabili nei ragazzi somali di Minneapolis, stretti fra un passato tradizionale e un futuro di libertà che incute un certo timore. Miski sta con al Shabab, ma con grande zelo loda le imprese dello Stato islamico, presso cui ha molti contatti attivi, e prima aveva fatto lo stesso con al Qaida. La sua timeline di Twitter, spezzatata in molteplici account bloccati e riaperti con nomi simili, è una sequenza incendiaria di proclamazioni di vittoria del Califfato e minacce di decapitazione degli infedeli. Nel dicembre scorso ha annunciato via Twitter il martirio di un altro giovane combattente venuto dal Minnesota, tale Yusuf Bashi, ucciso nella battaglia di Kobane, dettaglio che attira l’attenzione perché quello è il teatro di uno scontro decisivo, non un campo d’addestramento per gli ultimi arrivati. L’Fbi non può confermare la morte di Bashi, ma Loven mi spiega che in generale le reclute provenienti da qui “sono destinate a ruoli di combattimento al fronte, non nelle retrovie o in semplici attività di supporto”. Nell’ultimo messaggio audio, uscito un paio di settimane fa, l’autoproclamato Califfo al Baghdadi invita i musulmani “a unirsi alla lotta oppure a prendere le armi ovunque voi siate”, e Miski ha preso molto sul serio l’equivalenza fra il jihad al fronte e quello portato in terra nemica, messaggio ripetuto all’infinito dai leader del terrore. Il 23 aprile ha scritto: “I fratelli dell’attacco di Charlie Hebdo hanno fatto la loro parte. Ora è tempo che i fratelli degli Stati Uniti facciano la loro”. Tre giorni dopo ha scritto che “un uomo solo può mettere un’intera nazione in ginocchio”, e il messaggio era indirizzato a un trentenne dell’Arizona di nome Elton Simpson. Otto giorni dopo lo scambio di messaggi con Miski, Simpson e il suo compagno di stanza si sono presentati armati di fucili a Garland, in Texas, davanti al centro congressi in cui si stava svolgendo un contest di vignette di Maometto. Hanno ferito un militare che presidiava la zona e sono stati immediatamente uccisi. Da allora Miski non ha più twittato, e diversi account riconducibili a suoi compagni d’armi si chiedono dove sia finito.

 

“Questi ragazzi non sanno più chi sono”

 

Non tutti credono alla versione del “peer-to-peer” e all’onnipotenza dei social media. Erroll Southers, ex agente dell’Fbi e direttore del centro per la sicurezza nazionale alla University of Southern California, è l’autore principale di una ricerca sui terroristi di Minneapolis, uno studio empirico indipendente, benché finanziato dal governo americano. Nelle conclusioni Southers scrive: “Nelle Twin Cities, è stato riportato che il reclutamento include sempre una interazione faccia a faccia con un reclutatore. I social media potenziano il reclutamento ma non sono necessariamente i mezzi primari”. Al telefono Southers mi dice che non crede tanto alla storia di ragazzi cresciuti in America che si radicalizzano a vicenda: “Più che peer-to-peer direi piuttosto che c’è un rapporto da reclutatore a recluta”. Chi sostiene che a Minneapolis c’è una presenza di affiliati dello Stato islamico che coordina sul campo la rete, altro che social media, fa spesso il nome di Amir Meshal, un 32enne ben noto ai federali e che ha una causa aperta con il governo americano, che accusa di averlo detenuto illegalmente in Kenya e di averlo sottoposto ai famosi interrogatori duri della Cia. Meshal non è somalo né del Minnesota. E’ un egiziano cresciuto nel New Jersey, un elemento spurio nella diaspora locale che si muove secondo codici e canali diversi. Non è un “peer” della comunità. E’ stato cacciato da due moschee con l’accusa di propagandare una versione radicale dell’islam e di inneggiare allo Stato islamico, ma la cosa non è risultata in nessuna inchiesta da parte della procura, lui si è quietamente ritirato da qualche parte e a marzo ha fatto avere al New York Times e ad altri media una breve dichiarazione: “Non suggerirei mai a nessuno di unirsi allo Stato islamico né ad altri gruppi che uccidono innocenti, né provvederei fondi per farlo”. Meshal ha rifiutato una richiesta di intervista per questo articolo.

 

SJ Hassan, videomaker e giornalista che lavora occasionalmente per una rete televisiva somala, racconta di averlo visto una volta con tre ragazzi nel salotto di uno di loro: “La madre portava il tè, ma le è stato presentato semplicemente come un amico. Loro parlavano inglese, lei non aveva la minima idea di quel che dicevano, ma erano molto esaltati, parlavano del jihad, ed erano chiaramente sotto la sua influenza”. Poche settimane fa il sito di Mpr, la radio pubblica del Minnesota, ha scritto che “Meshal ha creato un gruppo di studio di 25 ragazzi che portava ogni settimana a casa sua”, nel quartiere periferico di Eden Praire, attribuendo la notizia a fonti somale non meglio specificate. Southers si spinge oltre queste generiche accuse nella descrizione della tattica adottata dall’egiziano per adescare e indottrinare i ragazzi. Si va dal primo approccio, un pranzo o una colazione a sue spese, per passare a conversazioni generali sull’islam e la vita americana. Poi gli incontri diventavano a cadenza settimanale, ogni volta in un posto diverso, rigorosamente lontano da moschee e altri raduni della comunità. Dopo aver parlato a lungo delle virtù storiche del jihad e “avendo portato i suoi studenti all’apertura cognitiva, il punto in cui uno accetta e interiorizza idee estremiste, Meshal faceva la domanda: ‘guardando il mondo oggi, c’è bisogno del jihad?’. Per essere sicuro, aveva costruito una visione del mondo in cui la risposta sarebbe stata necessariamente affermativa”. Il percorso raccontato da Southers finisce con le indicazioni per raggiungere la Siria, con tanto di contati sul confine turco e aiuti finanziari per sostenere le spese del viaggio senza finire impigliati nella rete di informatori dell’Fbi. Southers racconta che con i suoi colleghi ha discusso parecchio prima di inserire la vicenda di Meshal nel report, ma “molte fonti hanno confermato lo stesso identico racconto, e sono pronto a difendere quello che ho scritto”. L’avvocato di Meshal, Jonathan Hafetz, in una email scrive che Meshal “non ha altri commenti su queste speculazioni infondate”.


L’attrice e attivista Farhio Jordan dirige l’associazione Voice of East African Women. Normalmente non indossa il velo, “perché in Somalia originariamente non si usava”


La storia non è in sé decisiva, ma diverse fonti sostengono che è un caso esemplare per capire il sottobosco dove figure sinistre attirano i giovani nel cono d’ombra della guerra santa. Spesso sono gli stessi che pubblicamente condannano lo Stato islamico con iperboliche tirate in favore di telecamera. Hassan fa l’esempio di una scuola elementare – “ma non faccio nomi, lo dico subito” – nel retrobottega di una moschea: “Non è una scuola somala, ma una scuola islamica, dove i bambini indossano vestiti tradizionali e si insegna soltanto in arabo. Pochissime ore sono dedicate alle discipline scientifiche, e nel programma non c’è letteratura, soltanto insegnamento del Corano secondo le scuole di interpretazione più conservatrici del wahhabismo. I più giovani hanno 5 o 6 anni. Come pensi che escano da una scuola del genere?”.Anche Abdizirak Bihi, uno dei più noti attivisti della comunità somala, mi racconta di una presenza visibile, eppure elusiva e cangiante, di simpatizzanti dello Stato islamico: “Una volta sono venuti a una festa che abbiamo organizzato per la comunità, avevamo invitato una band a suonare sul palco e loro sono venuti con i megafoni e gli amplificatori, urlando che chi ascolta la musica va all’inferno. E’ successo alla luce del sole, proprio lì”, e indica il cortile del Brian Coyle Center, sede di molte associazioni della comunità somala. Da qui a provare l’affiliazione allo Stato islamico di certi personaggi con visioni conservatrici dell’islam ce ne passa, certo.

 

Mi racconta un episodio rivelatore che poi sentirò ripetere anche da altri interlocutori. Lo scorso anno il segretario della sicurezza nazionale, Jeh Johnson, è venuto a Minneapolis per rassicurare e tendere la mano alla comunità, irritata per l’osservazione costante e discriminatoria delle forze dell’ordine. Dopo una breve dichiarazione pubblica ha invitato una serie di leader di associazione locali, una ventina di circa, ad un incontro a porte chiuse sullo stato della radicalizzazione fra i giovani: “Metà dei personaggi seduti attorno al tavolo a dare indicazioni strategiche sull’antiterrorismo al governo erano gli stessi che privatamente esaltano al Shabab e lo Stato islamico”. Sono anni che Bihi combatte questa battaglia esterna e interna. Almeno da quel giorno del 2008 in cui suo nipote è partito da un giorno all’altro per unirsi ad al Shabab, senza che lui né la sua famiglia avessero mai sospettato nulla. Pochi mesi dopo la partenza è stato ucciso, spezzandogli il cuore. Aveva 17 anni.

 

Religiosamente corretto

 

Rimane la domanda che Nuruddin Farah, il più importante romanziere somalo vivente, mette in bocca a un personaggio della tragedia somalo-minnesotiana intitolata “Crossbones”: “Sai cosa l’ha spinto ad andarsene da Minneapolis per ritornare in questo luogo desolato?”. “Mi piacerebbe saperlo”, è la disorientata risposta.

 

Quello che i leader somali dicono in schiacciante maggioranza è che le condizioni sociali ed economiche non c’entrano nulla. Il report di Southers contribuisce a sfatare un mito eterno: “E’ stato detto che la povertà e la mancanza di mobilità sociale sono le cause primarie della radicalizzazione e delle partenze. Nelle Twin Cities questo non è vero”. Mohamud Noor, il direttore della confederazione delle comunità somale del Minnesota, dice che non sono le opportunità a mancare, è piuttosto un problema di identità. “I ragazzi non sanno più chi sono: a casa parlano somalo e ragionano in termini di clan e appartenenza religiosa, a scuola fanno la vita di tutti gli americani, ma sanno di essere diversi. Cosa siamo? Somali? Somali-americani? Musulmani-americani? Afroamericani? Siamo un po’ tutte queste cose, ma nessuna in particolare. In sottofondo c’è sempre questa chiamata continua del Califfato che martella, condizionando la mente di chi è in cerca di uno scopo, di un ideale per cui vivere. E’ la crisi d’identità il problema, non la crisi economica”. Noor è un uomo colto che parla il linguaggio della politica americana. Siede nel consiglio di amministrazione delle scuole di Minneapolis e lo scorso anno ha sfidato senza successo una veterana del Partito democratico (che qui si chiama Minnesota Democratic Farmer Labor Party) per un posto al Congresso dello stato. Parliamo in un open space affollato in cui l’inglese è un’eccezione, il suo ufficio è momentaneamente occupato da due signore sulla cinquantina. Dopo qualche minuto le donne aprono la porta con un plico di fogli fra le mani, ringraziano calorosamente Noor ed escono. “Quelle sono le madri di due dei ragazzi arrestati in aprile”, mi dice. “Sono venute qui perché non hanno idea di come si compilano i moduli per andare a trovare i loro figli in prigione, e si tratta di informazioni elementari, niente di complicato. Il problema è che se non parli una parola di inglese è difficile scontrarsi con la vita americana. Ma loro non sono un’eccezione, quelli della loro generazione sono tutti così: capisci con quale confusione in testa possono crescere i loro figli?”. Uno di loro, mi dice, era venuto a chiedergli un consiglio legale diversi mesi prima di essere arrestato. Lo aveva indirizzato a un avvocato di fiducia, come fa sempre in questi casi, ma non si era reso conto che era in corso una radicale metamorfosi interiore. “Ma quali posti di lavoro? Tutti quelli che sono partito un lavoro ce l’avevano oppure andavano al college”, dice Ahmed Ismail, seduto al tavolino di un caffè. Tutti qui lo chiamano Coach Ahmed, i più intimi semplicemente Coach, perché è l’allenatore della squadra di calcio del quartiere, il West Bank Athletic Club, dove giocano 150 ragazzi fra i 6 e i 18 anni. Ahmed si occupa dell’attività sul campo, il suo secondo, Phillip Kelly, del coordinamento e della comunicazione. Kelly è la cosa meno somala che si aggiri nel quartiere. Capelli biondi da metallaro svedese con frangia anni Ottanta, occhi azzurrissimi, barba lunga tendente al rossiccio e maglietta di un’imprecisata squadra di molti anni fa. E’ una coppia improbabile e perfetta. Fanno tutto su base volontaria, affidandosi soltanto alle donazioni e sostenuti da una struttura snella, quasi inesistente. La parola che usano più spesso è “holistic”, che sta per comprensivo, unitario, perché lo scopo del club non è perfezionare la diagonale difensiva ma dare un minimo di educazione ai ragazzi, insegnare loro a stare insieme, evitando che l’oggetto delle conversazioni sia il modo più rapido per raggiungere “shahiidnimo”, il martirio. “In alcuni casi tenerli lontani dalla strada è già una conquista”, dice Ahmed. Il Coach è il tipo che accompagna a casa quelli che abitano più lontano, si assicura che nel tragitto non incappino in qualche compagnia che è meglio evitare, parla con i genitori, svolgendo per tramite del calcio quel ruolo delicatissimo di “traduttore” dalla vita somala a quella americana, dal vecchio mondo al nuovo. “Ho incontrato uno dei miei ragazzi mentre venivo qui, mi ha chiesto cinque dollari in prestito: glieli ho dati. E sai perché? Perché se non glieli do io glieli darà qualcun altro. Anzi, magari gliene darà cento, lo inviterà a prendere il tè e poi chissà cosa ancora. Capisci? Se non ci sono io, se non ci siamo noi, ci sarà qualcun altro”. Uno dei ragazzi che il Coach ha allenato in questi anni si è volatilizzato qualche tempo fa. Le voci dicono che sia in Siria, ma l’allenatore è un tipo pratico, terragno, vuole vedere le prove e non ama saltare alle conclusioni troppo in fretta: “Non mi ero accorto di nulla, nessun cambio di comportamento che mi abbia insospettito, loro ti lavorano qui dentro”, e porta l’indice alla fronte. Allo stesso tavolo siede un ragazzo che chiede di non essere riconosciuto per nome. Ha soltanto un ciuffo di barba sulla punta del mento e parla un inglese meno disinvolto rispetto ai suoi compari. Mi dice che era un amico di Shirwa Ahmed, il primo attentatore suicida d’America, e anche di un altro terrorista di cui non fa il nome, ma con il quale ha lavorato per quattro anni: “Credimi, non se ne vanno perché non hanno alternative, non è quello il punto”.

 

Nella comunità i disagi non mancano, certo. Il tasso ufficiale di disoccupazione fra i somali è al 26,7 per cento ma Bihi mi dice che il numero reale è più vicino al 32 per cento. La disoccupazione in Minnesota è al 3,7 per cento, contro il 5,4 a livello nazionale. Lo stesso, non è una storia di emarginazione ed estrema povertà. Cedar-Riverside non è una zona residenziale di Berna, ma è un pullulare africano di commerci e botteghe a suo modo vitale. I deserti post-industriali di certe città americane trasmettono sensazioni più deprimenti di così. Poi c’è da mettere in conto la grande macchina del welfare del Minnesota, che è il motivo per cui i somali, come i hmong, i karen e altre comunità di rifugiati, si sono installate qui e non in Virginia, in Michigan o in California, dove erano originariamente state dirottate. La combinazione di strutturate opere di carità per i migranti, capitanate dal Lutheran Social Service e seguite a ruota dalle associazioni cattoliche e di filantropia varia, e di generosi finanziamenti pubblici ha creato un ecosistema assistenzialista in stile scandinavo. Fra edilizia popolare, scuole paritarie, sussidi per i beni di prima necessità, assistenza sanitaria gratuita e servizi civici a basso costo, non esiste in America un luogo più accogliente per un rifugiato in cerca di un nuovo inizio. La reale condizione della comunità è probabilmente un po’ meglio di quella raccontata dai dati.