Maurizio Landini - foto LaPresse

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Lavoro e Jobs Act, eterogenesi dei fini di un referendum

Maurizio Del Conte

Il lavoro non sta tanto bene, ma i problemi sono altri e non si risolvono con operazioni nostalgiche 

Più ci si addentra nell’analisi dei quesiti referendari promossi dalla Cgil “contro il Jobs Act” e più si comprende l’eterogenesi dei fini a cui condurrebbe – qualora avesse successo – l’iniziativa del sindacato guidato da Maurizio Landini. Sotto diversi e rilevanti profili. Per cominciare, solo uno dei quattro quesiti  ha effettivamente a che fare con le novità di sistema introdotte dal Jobs Act. Già, perché quella varata dal governo Renzi è stata la più vasta e articolata riforma del lavoro di questo secolo, partita da una legge delega del Parlamento emanata nel 2014 e attuata con ben otto decreti legislativi. Inoltre, pur non facendo tecnicamente parte della riforma originaria, ne è stata il sostanziale completamento la legge 81/2017 sullo Statuto del lavoro autonomo e sul lavoro agile (il c.d. smartworking). Ebbene, l’unico decreto che il referendum si propone di abrogare integralmente è quello sul contratto a tutele crescenti. Senza nulla voler togliere alla rilevanza di questo pezzo del Jobs Act, si tratta pur sempre di uno solo dei tantissimi temi toccati dalla riforma del 2015. Il che porta a concludere che i promotori del referendum non intendono metterne in discussione l’impianto complessivo. Anzi, puntando il dito esclusivamente sul contratto a tutele crescenti, finiscono per riconoscere e legittimare il resto della riforma. Un esito non esattamente in linea con il fine sbandierato di abrogare il Jobs Act.

  

Ancor più marcata è la eterogenesi dei fini che si produrrebbe con l’abrogazionedelle tutele crescenti. L’effetto sarebbe, infatti, il ritorno alla disciplina dei licenziamenti illegittimi voluta dal governo Monti-Fornero. Una legge che, come si ricorderà, fu duramente contestata dalla stessa Cgil perché riscriveva l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sostituendo la regola generale della reintegrazione con una sanzione economica fissata per legge tra le 12 e le 24 mensilità e consentendo al giudice di ripristinare il rapporto di lavoro solo in casi particolari, come quello del licenziamento discriminatorio o del licenziamento per fatti manifestamente insussistenti. Orbene, a seguito di una serie di modifiche intervenute sia per via legislativa che in forza dell’intervento della Corte Costituzionale, il contratto a tutele crescenti che si vorrebbe abrogare consente oggi al giudice di condannare il datore di lavoro, oltre che alla reintegrazione nel caso di licenziamento discriminatorio e in alcuni casi di licenziamento disciplinare, a pagare una indennità che può arrivare fino a 36 mensilità. Dunque, se passasse il referendum, il lavoratore illegittimamente licenziato si vedrebbe ridotto il limite massimo del risarcimento da 36 a 24 mensilità. Un esito, questo, di cui i lavoratori dovrebbero essere adeguatamente informati prima di recarsi alle urne.


Questi esiti contraddittori rispetto alle finalità dichiarate possono stupire solo chi si illude di risolvere questioni complesse attraverso scorciatoie semplicistiche. Lo strumento del referendum abrogativo andrebbe utilizzato con grande cautela e, preferibilmente, su questioni alte e di ordine generale, come è successo in passato  riguardo ai temi dei diritti civili. Se, invece, si vuole costruire un’alternativa allo status quo, si deve avere la forza  di imboccare la faticosa via delle riforme. Perché la storia non si cristallizza in una legge e negli ultimi anni il lavoro ha subito un’accelerazione straordinaria a causa delle crisi globali e delle innovazioni tecnologiche. E’ passato poco meno di un decennio dal varo del Jobs Act ed è giusto verificare cosa ha funzionato e cosa, invece, richiede una correzione. Per fare  un bilancio della riforma del 2015 non si possono eludere i dati del mercato del lavoro, facendo peraltro attenzione a non confondere semplici correlazioni con precisi rapporti di causalità.

 

L’Istat ci dice che, negli ultimi anni, il rapporto tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato si è spostato a favore di questi ultimi. Sarebbe  un errore sostenere che questo risultato sia ascrivibile al Jobs Act, ma non si può dire che i dati ci restituiscano un mercato del lavoro più precario. D’altra parte l’analisi dell’andamento dei licenziamenti ci dice che non si è prodotto alcun incremento dopo il 2015, sicché l’effetto deterrente attribuito al vecchio articolo 18 non trova riscontro nei dati. Alla luce delle evidenze empiriche, risulta smentita la tesi secondo cui il Jobs Act avrebbe prodotto una precarizzazione del lavoro o un incremento dei licenziamenti. 


Sotto un diverso aspetto, la suggestiva tesi secondo cui la scelta di spostare l’asse delle sanzioni per il licenziamento illegittimo dalla reintegrazione a un congruo indennizzo si scontrerebbe con i principi della nostra Costituzione posti a protezione del lavoro è stata smentita proprio dalla Corte costituzionale. I giudici delle leggi, pronunciatisi a più riprese sul contratto a tutele crescenti, hanno riconosciuto “l’adeguatezza e la dissuasività della normativa di contrasto dei licenziamenti illegittimi … che si compone della tutela reintegratoria e di quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualità e proporzionalità”. Gli stessi giudici delle leggi hanno precisato che la “fissazione di un limite massimo dell’indennizzo risponde … alla ragione di fondo della legge delega di incentivare le nuove assunzioni con la previsione di conseguenze sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento illegittimo”.  Persino nelle relazioni sindacali l’iniziale ostilità al nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti è stata progressivamente superata. Così, quando è stato chiaro che le nuove regole non avevano prodotto alcun incremento dei licenziamenti, gli iniziali accordi in deroga al Jobs Act sono spariti

 

 

L’analisi di nove anni di applicazione della riforma del 2015 ci dice che l’obiettivo messo nel mirino del referendum non coglie nel segno e sposta l’attenzione dai problemi reali del lavoro di oggi. Si perde così l’occasione per rimediare alla mancata realizzazione, anche in Italia, di un mercato del lavoro in linea con il modello europeo di flexsecurity, obbiettivo dichiarato del Jobs Act. E se nemmeno la straordinaria iniezione di risorse economiche messe a disposizione dal Pnrr sembra produrre risultati significativi sul sistema delle politiche attive del lavoro, occorre affrontare con coraggio le cause di questo insuccesso, a partire dalla mancata riforma del titolo quinto della Costituzione. 

  
Per quanto i numeri dell’occupazione siano in crescita, il lavoro   non gode di buona salute e ha urgente bisogno di cure appropriate. Ci si lamenta – a ragione – del lavoro povero, del lavoro sfruttato, del lavoro insicuro, del lavoro senza qualità. Se queste sono le vere emergenze  occorre affrontarle subito, con determinazione e con lo sguardo rivolto al futuro. Formazione professionale, aggiornamento delle competenze, riallineamento delle carriere alla metamorfosi delle imprese, incremento della produttività: di questo c’è bisogno per restituire il giusto valore al lavoro. Tutto il contrario dell’operazione nostalgica promossa da un referendum fuori dal tempo, utile solo a distrarre l’attenzione dall’urgenza di costruire gli strumenti adeguati per affrontare i cambiamenti epocali che stanno investendo il lavoro. 

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