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Lavoro e demagogia

Perché la scelta di rottamare il Jobs Act è un suicidio politico ed economico per il Pd

Marco Leonardi

L'opposizione farebbe meglio a concentrarsi sulla proposta del salario minimo, che sembra riscuotere un certo consenso tra elettori e classe politica

La legge di bilancio del governo si appresta ad essere difficile ma due elementi sono già chiari. Il primo è che Meloni intende mantenere la promessa e rubare la bandiera del centrosinistra sulla decontribuzione dei redditi bassi. Continuerà nelle orme di 4 governi Renzi, Gentiloni e poi Conte-Gualtieri e Draghi che hanno investito gran parte dei denari delle loro leggi bilancio per il taglio del cuneo fiscale e contributivo per le nuove assunzioni o per incrementare il reddito netto dei lavoratori dipendenti. Una bandiera del centrosinistra viene acquisita dal centrodestra che pure non ne aveva mai parlato né in campagna elettorale né in nessun documento politico precedente preferendo altre promesse (flat tax, pensioni etc.). Il secondo elemento è la cancellazione del reddito di cittadinanza, questo sì in continuità rispetto a quanto promesso in campagna elettorale, ma con una certa sorpresa, visto che comunque Fratelli d’Italia ha sempre preso molti voti al sud Italia, e quindi l’unica vera ragione per abolire il reddito era contendere i voti della Lega al nord. Con la cancellazione del reddito di cittadinanza, Meloni lascia un segno distintivo per cui il suo governo sarà ricordato nel futuro per la riduzione dello stato sociale, come altri governi di destra a partire da Reagan e Thatcher ma anche lo spagnolo Aznar e molti altri. Non credo che la legge di bilancio ci riservi molto altro se non dei dettagli su pensioni e natalità e -da tenere d’occhio- la riforma fiscale non per le aliquote, che spostano solo le briciole, ma per l’atteggiamento del governo verso l’evasione fiscale che è molto più importante quantitativamente. Come verrà usato il concordato preventivo biennale per le piccolissime attività: per permetter loro di continuare a evadere o per portarle “con le buone” verso dichiarazioni più veritiere? 

E comunque tra un potenziale maxi ritardo del PNRR tutto made in Meloni dopo la richiesta di revisione radicale del Piano, le minacce di intervento sul fronte dell’autonomia regionale differenziata e delle riforme istituzionali, le opposizioni hanno ben di che essere impegnate senza dover correre l’azzardo di sposare acriticamente il sindacato sulla lotta al Jobs Act. Dovrebbero aver imparato la lezione del 2016/2017. Nel 2016, durante il governo Gentiloni, la Cgil di Susanna Camusso in pochissimi mesi raccolse le firme necessarie per sottoporre a referendum due quesiti (in realtà 3 ma il terzo non è rilevante): il primo riguardava l’abolizione dei voucher e il secondo il ritorno dell’articolo 18. Entrambi i quesiti furono molto controversi: il governo a trazione Pd insistette ovviamente affinché il sindacato lasciasse perdere, ma la Cgil andò avanti e alla fine un risultato lo ottenne. Perché, nonostante la figura barbina di vedersi cassato dalla Corte Costituzionale, il quesito sul ritorno dell’articolo 18, tuttavia, ottenne dal governo la cancellazione dello strumento del voucher senza neanche dover arrivare al referendum. La valutazione che il governo fece al tempo fu la seguente: un referendum sull’abolizione dei voucher e il ritorno dell’articolo 18 non avrebbe sicuramente vinto ma comunque avrebbe avuto il risultato, a pochi mesi dalle elezioni, di mettere in difficoltà proprio il campo del centrosinistra. Per evitare il doppio referendum si cancellò quindi lo strumento del voucher e si diede alla Cgil una vittoria a metà visto che il voucher fu poi rimesso ma in formato elettronico e per usi limitati.  Cosa succederebbe oggi se la Cgil replicasse la stessa strategia del 2017 cioè raccogliere le firme per un referendum per riportare in vita l’articolo 18 e per cancellare qualche norma “precarizzante” del mercato del lavoro (per esempio un limite al subappalto, anche se questa è una normativa europea)?  Oggi, esattamente come nel 2017, un referendum dividerebbe il campo del centrosinistra mentre compatterebbe quello di centrodestra ma, diversamente dal 2017, il sindacato non potrebbe sperare in una vittoria a tavolino perché non c’è verso che il governo Meloni cambi le leggi sul lavoro perché la Cgil indice un referendum. Quindi i casi sono due: o il quesito su articolo 18 viene di nuovo cassato dalla Consulta e al danno di aver diviso il centrosinistra si aggiungerebbe la beffa; o si arriva al referendum e a quel punto comunque vada il vincitore sarebbe Landini, con un campo del centrosinistra irrimediabilmente diviso sarebbe come consegnare l’opposizione a Landini senza neanche passare da un congresso. Molto meglio concentrarsi sulla battaglia molto giusta seppur tardiva del salario minimo in cui perlomeno sono i partiti a menare le danze e la Cgil ad aver cambiato idea. Sul salario minimo una riflessione andrebbe fatta riguardo proprio a quei voucher aboliti nel 2017. Sono convinto che in Italia si arrivò a quella forma spuria e dannosa di retribuzione dei lavoratori con orari saltuari in lavori marginali perché per anni tutti i sindacati dei lavoratori e delle imprese sono stati strenuamente contrari al salario minimo legale e i partiti politici non ebbero mai il coraggio di prendere l’iniziativa.  

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