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L'analisi

La grande sfida della nuova Confindustria si chiama Capitalismo 5.0

Stefano Cingolani

L’Italia del quarto capitalismo ha occupato “nicchie di eccellenza”. Attraverso i distretti ha costruito robuste filiere, poi ha inventato le “multinazionali tascabili”. Il quinto capitalismo è il cammino per uscire dalla nicchia e dalla tasca

Emanuele Orsini, il nuovo presidente della Confindustria, sta lavorando alla squadra e al programma, puntando, scrive il Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria, su energia, Europa e certezza del diritto, tre priorità che hanno bisogno di interventi esterni, di decisioni politiche.

Alessandro Spada, presidente dell’Assolombarda chiede di “tutelare la forza dell’industria”. Ma di tutela si tratta o di accompagnare una trasformazione radicale che è già cominciata, ma va portata a buon fine? Mettere al centro l’industria non è mettere al centro il sostegno al processo di profondo rinnovamento in cui sono immerse le aziende italiane? Gli studiosi analizzano già un nuovo paradigma. Secondo Franco Amatori, professore senior alla Bocconi, siamo ormai “oltre il quarto capitalismo”; il suo allievo Andrea Colli che insegna storia economica alla Bocconi non esita a parlare di “quinto capitalismo”, lui che fu tra i primi, vent’anni fa, a delineare le caratteristiche del “quarto capitalismo”. Edoardo Reviglio già capo economista alla Cassa depositi e prestiti sta allargando la ricerca all’Europa.


L’Italia del quarto capitalismo ha occupato “nicchie di eccellenza”, attraverso i distretti ha costruito robuste filiere, poi ha inventato le “multinazionali tascabili”. Il quinto capitalismo è il cammino per uscire dalla nicchia e dalla tasca. Non è questo l’affascinante libro che anche la Confindustria deve contribuire a scrivere? Amatori e Ilaria Sangalli che in Banca Intesa cura l’analisi del sistema produttivo italiano, hanno pubblicato un elenco con nomi e cognomi. In testa per fatturato c’è la Ferrero, seguita da Prysmian, Marcegaglia, Webuild, Menarini, solo per citare i primi. Il marchio Quinto capitalismo è efficace e ci riproponiamo di raccontarne sul Foglio campioni e campioncini. Infatti, “in diversi settori è possibile individuare imprese che si distinguono per aver intrapreso un percorso che combina internazionalizzazione, innovazione di prodotto e di processo, attenzione alla ricerca e sviluppo”, scrivono Amatori e Sangalli. 


Il boom dell’export ha tenuto l’Italia tra i primi dieci paesi industriali al mondo, è meno noto che oggi sono presenti multinazionali italiane in 175 paesi con più di 24 mila controllate, circa 1,7 milioni di addetti e un fatturato di 500 miliardi di euro. Prendiamo la Amplifon nata in un sottoscala, diventata leader mondiale nelle “soluzioni per l’udito”, ormai impiega circa 20 mila persone in 26 paesi del mondo, dagli USA alla Nuova Zelanda, con quasi 10.000 centri specializzati. Non basta più esportare le merci o delocalizzare, occorre diventare protagonisti nei mercati esteri senza tagliare le radici. Non basta più produrre fantastiche componenti che tutti ci invidiano, se poi il valore aggiunto finisce altrove. Il movimento, cominciato da alcuni anni, s’è svolto per molti versi sotto traccia, se ne sono visti qua e là i segnali, si pensi al successo della Brembo con i suoi freni ad alta tecnologia. Ci sono comparti come la farmaceutica che nel loro insieme sono al vertice in Europa, ma la taglia della più grande azienda italiana, la Menarini, è lontanissima da colossi come Novartis, Bayer, Glaxo o Sanofi. Imprese davvero super nella meccanica o nella metallurgia, non hanno il potere di fuoco dei concorrenti internazionali.    


Insediarsi all’estero richiede competenze e reti che posso essere fornite dalle strutture associative. Le aziende sono consapevoli di dover colmare il gap digitale, ma non possono certo aspettare la cosiddetta rete unica governativa. Finora si sono finanziate da sole e con i prestiti bancari, adesso stanno entrando i fondi di private equity (ultimi esempi Della Valle e Segafredo Zanetti). I leader del quarto capitalismo sono stati dei fuoriclasse, ora il passaggio generazionale è fondamentale (la Esselunga di Bernardo Caprotti o la Luxottica di Leonardo Del Vecchio hanno riempito le cronache), e lo è la ricerca di un nuovo equilibro tra proprietà e gestione con l’ingresso di manager dotati di maggiori poteri. “Crescere, crescere, crescere” è il nuovo mantra, quasi un’ossessione dice il professor Amatori. Ma bisogna passare dalla crescita interna a quella esterna. Ferrero e Campari sono due esempi eloquenti. 


Nel 1976 venne eletto presidente della Confindustria Guido Carli già carismatico e potente governatore della Banca d’Italia. Nel suo programma inserì uno “statuto dell’impresa” con diritti e doveri, che doveva fare da pendant allo “statuto dei lavoratori”. Non se ne fece nulla. Forse Carli aveva esagerato nei doveri, certo quello smacco non gli è mai andato giù. I tempi sono cambiati, ma lo è anche il mondo delle imprese. Più che di uno statuto avrebbero bisogno di un sostegno alla grande trasformazione che parta dal basso, non si consumi nell’attesa di aiuti e sussidi da Roma o da Bruxelles.
 

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