(foto Ansa)

l'analisi

Senza gli immigrati, l'inverno demografico dell'Italia sarebbe una glaciazione

Giorgio Santilli

Per quanto possa dispiacere a Salvini e Vannacci, sono gli stranieri diventati cittadini italiani a salvare il nostro paese da un declino demografico ancora più drammatico di quanto già raccontino le cifre ufficiali

La società multietnica italiana è viva e cresce. Non piacerà al generale Vannacci e a Matteo Salvini, ma sono gli stranieri diventati cittadini italiani a salvare l’Italia da un declino demografico ancora più drammatico di quanto raccontino già le cifre ufficiali. La quota di stranieri residenti in Italia sul totale  è, secondo i dati Istat, l’8,5 per cento, 5.030.716 su 58.997.201 (dati 2022). Gli stranieri, che erano il 2,4 per cento nel 2001, sono cresciuti di 3.689.302 unità in 22 anni. Nello stesso periodo gli italiani residenti sono diminuiti di 1.685.371 unità: il 3 per cento. Due recenti studi curati da Enrico Campanelli per Cresme Daily raccontano una realtà molto diversa da questa fotografia ufficiale: semplicemente Campanelli sposta dalla sottoclasse “italiani” alla sottoclasse “stranieri” proprio quei cittadini stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana.

“I dati sulla presenza straniera – scrive Campanelli – assumono una connotazione diversa se vengono interpretati alla luce delle acquisizioni di cittadinanza italiana da parte di stranieri, che nel corso dell’ultimo ventennio, con l’aumento dei matrimoni misti e la maturazione dell’anzianità di ingresso delle prime ondate migratorie, hanno registrato una vera e propria esplosione, giungendo al record storico di quasi 214 mila acquisizioni di cittadinanza italiana nel 2022”. I nuovi cittadini italiani nel ventennio precedente assommano alla ragguardevole cifra di 1.921.759 unità. Spostando questi cittadini italiani nella quota della comunità straniera residente, l’8,5 per cento di quota di stranieri residenti sul totale diventa 11,8 per cento.

 

E’ un primo dato sorprendente. Ma incrociamolo ora con i trend della natalità. Nel 2008 le nascite sono state 576.659 e sono andate progressivamente riducendosi fino ai 393.333 nati del 2022: la perdita è del 31,8 per cento. Campanelli a questo punto introduce un elemento che pochi valutano adeguatamente, arretrando l’analisi agli anni 90. Se dal 1992 al 1995 il numero delle nascite è sceso da 575.216 a 526.064 unità, mostrando che il calo di natalità era già in corso all’inizio degli anni 90, dal 1995 al 2008 accade qualcosa di sorprendente: il numero delle nascite cresce progressivamente da 526.064 a 576.659 unità. Nello stesso periodo cresce anche il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) che era in picchiata già dagli anni 80: si passa dall’1,19 del 1995 all’1,44 del 2008 (nel 2022 è stato 1,24 e l’Istat stima per il 2023, sulla base dei dati del primo semestre, un’ulteriore riduzione a 1,22).

 

Cosa è accaduto in quei tredici anni “magici”? Due fenomeni contemporanei. L’afflusso di popolazione straniera nel decennio a cavallo del nuovo millennio ha raggiunto livelli record, ed è proprio questo a spiegare in gran parte la ripresa di natalità. Le donne straniere hanno corretto verso l’alto il tasso di fecondità. “Ma l’analisi dei coefficienti di natalità per età della madre – scrive Campanelli in un altro saggio – offre ulteriori elementi di riflessione. Valutando la distribuzione del 2008 in rapporto a quella del 1995, infatti, appare evidente che l’aumento del numero di nascite ha interessato solo le classi in età più avanzata, dai trent’anni in su.  L’osservazione testimonia il recupero di natalità da parte delle consistenti generazioni nate nel boom demografico degli anni ‘660, che dopo aver completato gli studi e trovato una occupazione, tra la seconda metà degli anni 90 e il primo quinquennio degli anni 2000, abbandonano la famiglia d’origine per crearne una propria, determinando un mini-boom nella dinamica delle nascite, e una vera e propria esplosione della domanda di abitazioni sul mercato immobiliare”. 

 

Anche più di recente il calo di fecondità è stato determinato dalla consistente riduzione delle nascite nelle classi di età più giovane, dai trent’anni in giù, mentre è rimasto sostanzialmente invariato nelle classi in età matura. Crisi economica e occupazionale, precarietà lavorativa e affettiva-familiare: queste oggi le ragioni profonde della denatalità. “Ne scaturisce – commenta Campanelli – che interventi di incentivazione della natalità incentrati sui bonus una tantum hanno una efficacia assai modesta, in un contesto socioeconomico che penalizza i giovani, con disoccupazione giovanile al 22,6 per cento, precarietà occupazionale ampiamente diffusa nelle classi giovanili (il 39 per cento dei contratti a termine interessa giovani nella fascia 15-29 anni) e servizi pubblici di sostegno alla maternità (asili nido, ecc.) ampiamente insufficienti e carenti”.

 

Torniamo agli stranieri. La popolazione residente in Italia è cominciata a scendere dal 2013 quando era 60,35 milioni fino ai 59 milioni attuali. La popolazione italiana ufficiale ha perso 468 mila unità dal 2002 al 2022, pari all’1,3 per cento. Cosa sarebbe successo se la stabilizzazione degli stranieri in Italia non avesse portato quasi 2 milioni di cittadini  in più dal 2001 al 2022? La caduta della popolazione italiana sarebbe stata di 2,2 milioni, pari al 6,2 per cento. Il nostro inverno demografico oggi sarebbe molto più rigido e soprattutto – gli aspetti lunghi nella demografia sono fondamentali – sarebbe cominciato venti anni prima, già negli anni 90. Oggi non ci sarebbe spazio per retoriche nazionalistiche né per razionali politiche di stimolo delle nascite: il declino socioeconomico dell’Italia, con questi numeri, non avrebbe nessuna possibilità di invertire la rotta.

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