Il ministro per il Pnrr Raffaele Fitto - foto via Getty Images

All in

Il Gran Casinò di governo per le opere infrastrutturali previste dal Pnrr

Giorgio Santilli

Tutto un rimodulare, uno spostare scadenze e fiches da decine di miliardi di euro da un piano all’altro. Ecco i tavoli da gioco dell'esecutivo sui fondi del Next Generation Eu

Nel salone del Gran Casinò di governo si moltiplicano i tavoli dove si pratica il gioco delle tre carte. Tutto un rimodulare, uno spostare scadenze e fiches da decine di miliardi di euro da un piano all’altro, poste da centinaia di milioni da un’opera all’altra, definanziare e rifinanziare, azzerare, rinviare per poi magari recuperare più avanti oppure tenere in un limbo che potrebbe tornare utile domani. C’è anzitutto il tavolo – molto frequentato negli ultimi sei mesi ma ora chiuso – della revisione del Pnrr che ha spostato 12,8 miliardi dalle opere comunali (per 11,6 miliardi) al Repower Eu, transitando però per spostamenti grandi e piccoli di risorse e scadenze che hanno coinvolto 114 investimenti tra vecchi e nuovi.
 

Per rifinanziare le opere stralciate si è tirato in ballo di tutto, dal fondo opere indifferibili, alle spese pluriennali dei ministeri, una radiografia del bilancio dello Stato degna di una legge finanziaria. C’è poi il tavolo del Piano nazionale complementare, ideona di Draghi per finanziare le opere meritevoli del Pnrr (come la ferrovia Salerno-Reggio Calabria) ma di più lunga gittata. Il Pnc ora è assurto al ruolo di vittima sacrificale del decreto legge Pnrr 4: vale in partenza 30,6 miliardi ma è già pronto a iscriversi alla lista Wwf, razze in via di estinzione, con un primo taglio il prossimo mese destinato a spazzare via tutte le opere in ritardo con gli appalti (per l’ultima relazione della Ragioneria generale le opere in ritardo con le scadenze sono il 65%) e poi altri tagli cadenzati ogni sei mesi che lo spolperanno di gran parte dei fondi. In mezzo, un lavoro anche qui di spostamenti di date e somme, con l’approvazione dei nuovi programmi a opera di una commissione di esame presieduta dal ministro Raffaele Fitto e partecipata dalla Ragioneria generale. Alla fine, del Pnc resterà poco o niente, se verranno mantenute le promesse del decreto legge 19. C’è poi il tavolo sempreverde del Fondo sviluppo e coesione, un fondo che è stato il precursore del gioco delle tre carte quando si chiamava ancora Fas (Fondo aree sottoutilizzate).
 

Un giocatore di lusso a questo tavolo era l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, accusato a un certo punto di usare il Fas “come un bancomat”. Con il decreto Pnrr 4 intanto gli sono stati scippati 6.682 milioni, giusto per confermare la vocazione di cassaforte delle emergenze, pronta a finanziare dal maxi al micro. C’è l’impegno teorico nel DL a restituire fino all’ultimo euro, per reintegrare il fondone nazionale da 40 miliardi che ha un vincolo per il Sud all’80%, mentre le tre grandi regioni del Mezzogiorno aspettano l’assegnazione dei fondi regionali (in tutto 32 miliardi di cui quasi la metà a queste tre regioni). C’è in costruzione – con una milestone al 31 marzo nuova di zecca nel Pnrr e un decreto legge di Fitto che arriverà a fine mese – il tavolo della riforma delle procedure dei fondi strutturali europei di coesione che valgono altri 43 miliardi di cofinanziamento nazionale 2021-2027 più almeno una decina di residui 2014-2020.
 

La partita si gioca, insomma, al momento con una cinquantina di miliardi di euro concreti spostati da un tavolo all’altro, ma altrettanti sono in cassa pronti a finire tra le fiche sui tavoli. Tanta è la confusione senza un disegno che si impongono ormai soltanto priorità squisitamente politiche: oltre al Ponte sullo Stretto di cui Salvini ha fatto ormai la bandiera della Lega al Sud, sono diventate intoccabile – ed è un vero paradosso – le opere e operette comunali stralciate dal Pnrr per cui c’è l’impegno sacrale al rifinanziamento. In questo gran polverone, denunciano i costruttori dell’Ance, per rifinanziare le opere già definanziate dal Pnrr, il 70% dei fondi arriverà da altre opere infrastrutturali che quindi resteranno a terra. Un gioco senza fine se ai tavoli, al posto delle tre carte della tradizione, si portano altri mazzi di carte, nella furia di smontare e rimontare tutto. Tanta è la voglia di fare a brandelli qualunque forma di pianificazione passata che il più prestigioso tecnico dell’area di centro-destra, Ercole Incalza, padre del primo Piano generale dei trasporti e “anima” della legge obiettivo, è arrivato a invocare un urgentissimo piano di medio-lungo periodo da allegare al prossimo Def di aprile.
 

Un campanello d’allarme e al tempo stesso l’indicazione di una strada da percorrere con serietà per far tornare questo “allegato infrastrutture al Def” (annacquato e privo di indicazioni strategiche nell’aprile 2023) a un vero esercizio di programmazione a dieci anni, necessario per capire non solo come vogliamo collegare pezzi d’Italia fra loro, ma anche che ruolo vogliamo giocare nel commercio internazionale e nella partita della logistica mondiale al tempo degli Houti. Un piano che ci aiuti a uscire dalla sbornia di scadenza ormai fini a se stesse del Pnrr e dei suoi fratelli minori e dica chiaramente dove vuole andare il Paese, con quali scelte, con quali sacrifici.

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