l'analisi

Se 500 miliardi vi sembran pochi. La grande abbuffata a debito

Luciano Capone e Riccardo Trezzi

Dal 2021 l'Italia ha speso o si è impegnata a spendere il 25 per cento del pil tra Pnrr, Superbonus, aiuti contro il caro energia e tagli di tasse. Tra previsioni sbagliate e deficit ampi, Giorgetti deve fare trasparenza sui conti e indicare un percorso credibile di rapido ritorno all'avanzo primario

Quando il Covid ha indotto una recessione profonda e inaspettata all’inizio del 2020, un’intera generazione di economisti e policymaker aveva ancora in mente le conseguenze della crisi finanziaria del 2008 e di quella dei debiti sovrani del 2011. Per questo, le politiche anticicliche a supporto dell’economia sono state imponenti, sia dal lato monetario sia da quello fiscale. A quattro anni di distanza possiamo concludere che, visti i record del mercato del lavoro, le misure di supporto hanno stabilizzato prima e stimolato poi l’attività economica. Al tempo stesso, la dinamica dei prezzi e lo stato delle finanze pubbliche italiane impongono una riflessione sull’eccesso di risorse stanziate.

 

Una tabella ufficiale con il riassunto di tutte le misure fiscali disposte dal 2021 in Italia non esiste. Dubitiamo anche vi sia coscienza dell’ammontare totale, con tutta probabilità largamente sottostimato nella mente delle persone e degli stessi legislatori. Per questo abbiamo fatto un calcolo sommario relativo alle principali voci di spesa, escludendo i sussidi strettamente necessari ad attutire l’impatto del Covid e dei lockdown su lavoratori, famiglie e imprese: dal 2021 a oggi l’Italia ha stanziato l’incredibile cifra di 500 miliardi di euro, uno stimolo fiscale pari a circa il 25 per cento del pil, stima in probabile difetto per le ragioni che stiamo per spiegare. 

 

Le principali misure fiscali approvate sono quattro: il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), i sussidi all’edilizia (Superbonus e Bonus facciate), le misure contro il caro energia e il taglio delle tasse (principalmente sottoforma di decontribuzione). Questi i conti aggiornati del costo di ogni misura. Il Pnrr ammonta a 194,4 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i 30,6 miliardi del Piano nazionale complementare (Pnc) per un totale di 225 miliardi di euro. 

Il secondo capitolo di spesa è quello dei bonus edilizi. Considerando solo il Superbonus e il Bonus facciate (ed escludendo quindi gli altri bonus al 50-65-75-80 per cento), la stima attuale ufficiosa fornita da quotidiani come il Sole 24 Ore (in attesa che il Mef fornisca dati ufficiali) è di 147 miliardi per il primo e di 26,5 miliardi per il secondo, una voragine che non pare avere fine considerando che la spesa preventivata era di 40,9 miliardi complessivi per le due misure. C’è da sottolineare che la stima per i due bonus edilizi (173,5 miliardi) è provvisoria e pertanto prudenziale, con tutta probabilità è destinata a salire quando saranno inclusi tutti i crediti fiscali residui, che oramai sembrano spuntare dal nulla senza che il Mef e la Ragioneria dello stato (Rgs) ne abbiano contezza. 

Il terzo set di interventi  ha riguardato il caro energia. Stando alle ultime due Nadef dei governi Draghi e Meloni, il conto è stato di 5,5 miliardi nel 2021, 57,1 miliardi nel 2022 e 25,7 miliardi nel 2023, per un totale di 88,3 miliardi di euro. 

L’ultimo capitolo è il taglio delle tasse pari a circa 10,5 miliardi nel 2022 (riforma Irpef e decontribuzione del governo Draghi), 9,5 miliardi nel 2023 (decontribuzione governo Meloni) e 15 miliardi nel 2024 (decontribuzione e cosiddetto “primo modulo” della riforma Irpef). 

Considerando che c’è una sovrapposizione di 14 miliardi tra Pnrr e Superbonus, dato che circa un decimo del credito d’imposta al 110 per cento è stato finanziato dal piano europeo, sommando i quattro principali provvedimenti si arriva a un’incredibile conclusione: 507,8 miliardi di euro, già spesi e da spendere nell’arco temporale 2021-2026. Vale la pena ripetere che la stima è di massima e prudenziale, poiché sono considerate solo le principali misure di stimolo, inoltre non è ancora noto il costo finale dei bonus edilizi e soprattutto è presumibile (almeno questo è l’impegno dichiarato del governo) che il taglio delle tasse verrà prorogato negli anni a venire.

 

Dato l’ammontare di risorse messo in campo, non stupisce che, come ricordato in apertura, l’andamento del pil e dell’occupazione post Covid sia stato radicalmente diverso dal post 2008 e dal post 2011, e questa è certamente un’ottima notizia. Al tempo stesso però va ricordato, cosa che spesso sfugge nel dibattito, che l’Italia (ieri elogiata dal Financial Times in un articolo dedicato al buon trend dello spread del nostro paese rispetto alla Germania) non ha avuto una performance così nettamente migliore rispetto ad altri paesi europei come Francia, Spagna o Portogallo. Per utilizzare il titolo del libro di Tito Boeri e Roberto Perotti, abbiamo assistito a “La grande abbuffata” della finanza pubblica italiana. 

 

Il risultato finale è pesante per le casse dello stato, molto più di quanto si pensi. Giusto per dare l’idea, l’Italia ha chiuso il 2023 con un deficit che è il più alto dell’Eurozona (circa il doppio della media europea) e con un disavanzo primario del 3,4 per cento, un dato che è in linea con la media dei disavanzi degli anni 70 e 80 (3,6 per cento), periodo che di certo non ricordiamo per la gestione finanziaria oculata. Detto in modo brutale: siamo andati avanti a spendere come negli anni peggiori del passato pensando che la congiuntura fosse sfavorevole, quando invece il mercato del lavoro macinava record nel 2022 e 2023.

 

La grande abbuffata presto presenterà il conto. Per tale ragione, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti dovrebbe innanzitutto fare un’operazione di trasparenza e chiarire a quanto ammontano i crediti residui dei bonus edilizi, sempre che la cosa sia nota al Mef e alla Rgs. Le previsioni del deficit 2023 sono state clamorosamente sbagliate di oltre 40 miliardi (1,9 per cento del pil) per ragioni ancora ignote, dato che il ministro sul tema non ha mai riferito in Parlamento né in altra forma. Dal canto nostro ricordiamo che l’algebra impone all’Italia di raggiungere presto un sostanzioso avanzo primario. Senza una politica fiscale prudente il debito pubblico è destinato ad aumentare nei prossimi anni e un paese come l’Italia, con un rapporto debito/pil al 137 per cento e che arriverà a superare nel 2026 i 100 miliardi di spesa per interessi passivi, non se lo può permettere.

 

L’ex governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, prima della crisi Covid, quando i tassi d’interesse e il costo del debito erano più bassi di ora, aveva indicato un avanzo primario del 4 per cento come un obiettivo sfidante ma possibile per riportare il debito pubblico sotto la soglia del 100 per cento in dieci anni. È meno di ciò che l’Italia ha fatto negli anni Novanta, quando è riuscita a mantenere tra il 1995 e il 2000 un avanzo primario medio del 5 per cento e con picchi superiori al 6 per cento.

All’epoca, soprattutto nel centrosinistra, il debito pubblico era ritenuto un problema primario da affrontare e la convergenza verso i parametri di Maastricht per entrare nell’euro un obiettivo fondamentale da raggiungere. I punti di riferimento del progressismo all’epoca erano Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta e non chi offriva di ristrutturare villette e seconde case “gratuitamente”, ovvero a debito (pubblico). 

I 500 miliardi spesi dal 2021 sono andati oltre ogni previsione e oltre il buonsenso. La speranza è che non si vada anche oltre l’algebra.